La produzione maggiore di petrolio lucano deriva da fratture sotterranee. Si sono inventati persino strumenti per valutare la produttività di petrolio grazie alle fratture. Fratture che entrano in contatto con un acquifero e nulla si sa dei possibili danni provocati.

Tra faglie e fratture. Nel 2014 in Val D’Agri la Società Geologica Italiana analizzò una faglia e descrisse la cinetica verticale delle fratture, specificando che l’architettura della zona di faglia include un cuore fatto d’una “superficie principale di scivolamento” (PSS, ndr) abbracciata da 10 centimetri di spesse rocce cataclastiche sopra il piano di faglia, mentre sotto c’è roccia dolomitica non consolidata. Sotto il piano di faglia vi sono spesse rocce dolomitiche altamente fratturate che includono superfici di scivolamento secondario. Dal piano di faglia sono emersi vari livelli cataclastici. E qualcuno localizza altri piani di scivolamento. In prossimità della PSS sono state osservate vene ultraclastiche caratterizzate da detriti rocciosi, fratture seguite da riempimenti di calcite. C’è poi un livello cataclastico distinto confinato da due superfici di scivolamento contenenti sottolivelli fatti di detriti dolomitici smussati e appuntiti, e caratterizzati da confini ondulati e protusivi che formano una struttura complessa. A intersecare tale livello distinto ci sono vene sotto-verticali di calcite che attraversano o s’addossano a sottolivelli e confini di scivolamento superficiale. Le osservazioni microstrutturali della deformazione lungo la faglia indicavano che al cuore di tale fluidificazione s’erano innescati “processi di indebolimento”. In Val D’Agri c’è un tipo di faglia composta di strutture estensionali che con l’attivazione di meccanismi di deformazione potrebbero ingenerare uno scivolamento? Eni sa che la catena appenninica è tettonicamente attiva, e ha usato tecnologia in grado di individuare sia i breakouts, gli orientamenti prevalenti di fratturazione della roccia, sia le fratture indotte. Stando a Agip, Enterprise Oil, e Schlumberger di fratture indotte “particolarmente importanti come quelle prodotte dall’azione meccanica degli strumenti di perforazione”, ve ne sono. Come in un anonimo Pozzo A dove tra fratture aperte e indotte le seconde sono il numero maggiore (foto1).

La testing area petrolifera. In questo ambiente geologicamente sensibile nel ’95 Agip e Baker Hughes testavano una nuova tecnologia. Un tipo di perforazione deviata grazie a una trivella che migliorava geometria e inclinazione del buco. All’inizio a Monte Alpi 5 Or la nuova trivella incontrò diversi problemi. A 1.429 metri di profondità si interruppe il getto a olio che facilitava la trivella nel lavoro. Anche a 1.850 metri la nuova trivella iniziò a avere problemi, sino a 1.972 metri quando fuoriuscì dal buco e non inviò più segnali. Per risolvere il problema dovevano migliorare l’elettronica e la tecnologia che sfruttava il getto che permetteva alla trivella di perforare. Si fa così in Basilicata. Si sperimenta sul campo. Così nel test a Monte Alpi 1 Est videro che la nuova trivella, dopo gli accorgimenti, riduceva il tempo di esposizione a “shock meccanici” dovuti alla perforazione. La chiave del successo per estrarre in formazioni instabili come in Val D’Agri era una perforazione verticale che aiutava in certe estensioni a ripulire il buco perforato permettendo di evitare tubazioni corte che rappresentavano la potenziale sorgente di instabilità dei pozzi. Vedremo di seguito come si fanno le pulizie. Indubbiamente la nuova trivellazione ha avuto il valore aggiunto per le company di permettere sia profili “slim” (stretti, ndr) dei pozzi esplorativi (riducendo quantità di rifiuti e costi di materiali, ndr), sia la clasterizzazione, cioè la riduzione del numero delle aree pozzo. In realtà sui quantitativi di rifiuti non è mai stata chiara nessuna company. Solo negli ultimi anni tra scandali Total e Eni è emerso come ci si rapporta realmente agli appalti su fanghi di perforazione e smaltimento rifiuti. Certo la clasterizzazione è opzione particolarmente importante dove gli impatti ambientali devono essere ridotti, ma a volte, come in Val D’Agri, ci sono difficoltà.

Lì dove c’è l’acqua. Dal 1980 con la scoperta di Costa Molina 1, al 1999 con Tempa Rossa, Monte Alpi 1 (1988), Cerro Falcone 1 (1992), e Monte Enoc 1 (1994), la Val D’Agri ha visto perforare decine di pozzi. Monte Alpi è il tipico scenario di clasterizzazione, fatto di due-tre pozzi che vanno giù sino a mille metri con difficoltà a controllare la traiettoria verticale con una perforazione convenzionale, e elevatissime probabilità di collisione tra pozzi se non si considera una distanza minima di clasterizzazione tra i buchi così alta che rende la stessa impossibile. Uno studio del ’99 racconta cosa s’è fatto per clasterizzare. Intanto si dice che la riserva carbonatica è unica, considerate le aree di Tempa Rossa, Costa Molina, Monte Alpi, Cerro Falcone, e Monte Enoc, e che ad una “media di 600 metri di colonna d’olio” (sino a 1.000, ndr) presenta olio leggero e pesante. E soprattutto che a “2.960 sotto il livello del mare il fondo della riserva è delimitato da un acquifero”. L’anonimo Pozzo A descritto da Agip, Enterprise Oil, e Schlumberger (foto2) racconta di registrazioni della sezione non intubata del pozzo che non fornirono informazioni sul contatto petrolio-acqua, e che fu dedotto da quello regionale estrapolato da dati d’un giacimento vicino. In seguito il contatto fu identificato 40 metri prima. Questa volta è a circa mille metri di profondità che s’incontra una bella tavola d’acqua. Acqua che inizia a spostarsi verso il basso a partire da 200 metri sottoterra (foto3). Nel ’99 si legge in un altro studio sull’acidificazione dei pozzi orizzontali: c’erano quattro pozzi attivi e 13 completati ma non connessi, con un progetto che ne prevedeva 50 per ottenere 100 mila barili al giorno. Per limitare i pozzi fu programmata la perforazione orizzontale e multilaterale, sviluppando sette pozzi tra cui Cerro Falcone 1, Monte Alpi 5, Monte enoc NW1, Monte Enoc 2, Monte Enoc 3, Monte Enoc 9, Alli 1. Per di più, si spiega sempre nello studio, in seguito furono completati i pozzi orizzontali Cerro Falcone 2 e Volturino 1 definiti “bidrain well”. Probabilmente pozzi dove scaricare fluidi per stabilizzare la pressione di giacimento, in poche parole pozzi di reiniezione. Se Costa Molina2 oggi è l’emblema della mala gestione possiamo avere dubbi su cosa sia accaduto anni prima?

Pulizie all’acido cloridrico. Di solito la lunghezza media della sezione orizzontale dei pozzi è mille metri, e alla velocità media con cui la trivella rompe la roccia di 2,5 metri l’ora la riserva è esposta a più di trenta giorni di fanghi di perforazione. Quando una frattura è colpita frequentemente la perdita di fluidi è sperimentata. Lo dice l’Eni. Così per continuare la perforazione si usò materiale solido nel sistema di fanghi in modo da prevenire o ridurre il flusso nelle formazioni fratturate. “I test di produzione – affermarono tecnici Eni, Baker Oil Tool, e Schlumberger – suggeriscono che la maggior parte della produzione viene da alcune fratture naturali e che la formazione danneggiata può essere effettivamente rimossa con acidi appositamente designati. È così fu usato acido cloridrico (HCL, ndr) in varie procedure come per Monte Enoc 2 (foto4) e non solo. Talmente pericoloso l’HCL che viene trasportato con camion completamente incassati in una struttura d’acciaio (foto5). E se ne vedono in Basilicata. Inizialmente nel completamento dei pozzi verticali i trattamenti sono consistiti nel pompare HCL forzatamente nella formazione a un tasso massimo. Nei recenti pozzi orizzontali la procedura di acidificazione ha incluso due principali operazioni. Lo “spotting” di HCL davanti la formazione tramite tubazioni, e il “bullheading” a un tasso massimo intervallato da un “piccolo volume” o pill, viscoso (il pill generalmente è meno di 200 barili spiega l’Oilfield glossary, ndr). Si tratta di operazioni pericolose. Il rischio principale nel bullheading è non riuscire a controllare dove finiscano i fluidi pompati che prevedono altro oltre HCL. Solitamente entrano nella parte della formazione più fragile dicono. Lo spotting nel caso Val D’Agri è consistito nel collocare il “pill” di HCL nello spazio tra il pozzo trivellato e le tubazioni inserite. Per far ciò prima erano usati fanghi a base d’olio.

Quello scorrimento attraverso le fratture. Fanghi a base d’olio certo non sono una novità in Val D’Agri. Nel 2013 Halliburton scrisse però che finalmente, grazie al nuovo ADPTM Dry Polymer Blender, avevano eliminato il bisogno di tutti i fanghi a base di idrocarburi, da quelli iniziali a base di diesel, ai successivi a base di oli minerali. Troppo tossici per un ambiente ricco d’acqua come la Val D’agri. Ancora nel 2011 Halliburton spiegava invece un nuovo brevetto di fanghi a base di idrocarburi che non avrebbero permesso di penetrare la matrice rocciosa, le cui principali applicazioni erano il controllo dell’acqua nei canali delle tubazioni del pozzo che la trivella si lasciava dietro, e nelle fratture. E soprattutto, i “problemi di perdite di circolazione mentre si perfora in acquiferi”. Per spiegare il nuovo prodotto portano come esempio un pozzo in Val D’Agri in cui il problema è identificato come “scorrimento d’acqua attraverso le fratture”. Capiamo che in Val d’Agri le company hanno da anni un problema dovuto all’eccessiva produzione d’acqua causata da “fratture naturali connesse a un acquifero” trovato a 1.000, e anche a 2.960 metri sotto terra, quindi sono vari e connessi? In parte sì. Halliburton ci fa anche un disegnino semplice semplice per farci capire come funziona la migrazione, nel caso specifico in un acquifero collocato trecento metri sotto il pozzo (foto6). Un caso anonimo, di cui non viene riportato né il nome del pozzo orizzontale (non c’è ne solo uno in Val D’Agri, ndr), né la sua profondità. Ma in fondo meglio che nessuno sappia.
