
Da qualche tempo siamo abituati a leggere i titoloni dei grandi quotidiani o dei TG, circa la scoperta di emissioni di metano in atmosfera grazie al satellite del Sistema Copernicus Sentinel-5P.
Recentemente, utilizzando i dati del sistema Copernicus Sentinel-5P, combinati con le immagini ad alta risoluzione della società canadese GHGSat, gli scienziati dell’Istituto Olandese per la ricerca spaziale SRON e della società GHGSat, hanno scoperto che per esempio due discariche spagnole nell’agosto 2021 emettevano 8,8 tonnellate di metano l’ora. Si tratta del livello più alto mai osservato in Europa con i satelliti. Secondo i dati della Commissione Europea e dell’Agenzia Europea dell’Ambiente, i 10 siti minerari europei più inquinanti si trovano in Polonia, soprattutto nel bacino carbonifero della Slesia: nel 2020, complessivamente, essi hanno rilasciato nell’atmosfera 282.300 tonnellate di metano; ma grazie agli odierni sensori fenomeni rilevanti si osservano a tutte le latitudini, dalla miniera di carbone nella Provincia di Shanxi in Cina alla perdita rilevata da un metanodotto in Kazakhistan (Fig. 2).

Nel nostro piccolo, anche noi di Cova Contro, attraverso un monitoraggio satellitare sul Comune di Stigliano, ci siamo interessati alla tematica.
Si stima che dall’era pre-industriale il metano abbia da solo contribuito al 30% di tutto il riscaldamento globale (in questo è secondo solo alla CO2) e che la sua concentrazione in atmosfera da allora sia più che raddoppiata. Oggi sta aumentando ancora più rapidamente di quanto non abbia fatto finora e ha raggiunto livelli record di quasi 1,9 parti per milione (ppm). Per raffronto, la CO2 è da qualche anno stabilmente sopra le 400 parti per milione, ma è bene ricordare che il metano incide molto di più sull’effetto serra.
Per via delle restrizioni della pandemia le emissioni annuali di metano sono scese nel 2020 rispetto all’anno precedente, ma complessivamente, sono destinate ad aumentare fino al 2040.
Lo hanno rilevato gli scienziati della Noaa (National Oceanic and Atmospheric Administration), l’agenzia federale statunitense che si interessa di oceanografia, meteorologia e climatologia. L’analisi preliminare ha mostrato che l’aumento del metano atmosferico durante il 2021 è stato di 17 parti per miliardo (ppb), il più grande aumento annuale registrato dall’inizio delle misurazioni sistematiche nel 1983.
Nel rapporto, redatto anche dalla Climate and Clean Air Coalition, oltre a dirci che rilasciamo ogni anno in atmosfera circa 380 milioni di tonnellate di metano, mostra che le emissioni antropiche di metano provengono principalmente da tre settori. Le aziende dei combustibili fossili sono responsabili del 35%, ripartito tra estrazione e distribuzione di gas e petrolio (23%) e miniere a carbone (12%). Le discariche rappresentano il 20% della torta, mentre l’agricoltura il 40%, con l’allevamento di bestiame (soprattutto bovini) che vale il 32% e la coltivazione del riso l’8%.
Facendo la somma di 35+20+40 il risultato finale risulta essere 95%. Quindi solo il 5% è da imputare a cause diverse da quelle scientificamente riconosciute e sopra citate?
Gli oltre 10.000 kmq di metano, presenti nella troposfera circa sette giorni fa ed esattamente il 6 giugno scorso alle ore 13 locali, scoperti attraverso l’elaborazione dei dati di Sentinel-5P, si trovano esattamente nel delta dell’Okavango, in Botswana – Africa.

Il Delta dell’Okavango, in Botswana, è il secondo più grande delta fluviale interno del mondo, dopo il delta interno del Niger, e rappresenta uno degli ecosistemi più insoliti del pianeta. È formato dal Fiume Okango, che nasce in Angola (presso Huambo) e giunge alla foce dopo un percorso di oltre 1.000 km e l’incontro con numerosi affluenti. Complessivamente, il fiume porta ogni anno circa 11 chilometri cubi di acqua, che vengono scaricati dal delta direttamente nella sabbia del Kalahari, formando una pianura alluvionale di 15.000 kmq di estensione caratterizzata da una complessa e mutevole griglia di canali, lagune e isole.
Questo ambiente straordinario dà vita, ai bordi del deserto, a una fauna e una flora esuberanti, e ha attirato numerosi insediamenti umani (vivono nei pressi del delta ben cinque diverse etnie). Nel 1965 una parte del territorio del delta è stato dichiarato riserva naturale, col nome di Riserva faunistica Moremi (circa 3000 kmq). La riserva è gestita dalla Fauna Conservation Society di Ngamiland e rappresenta la principale attrazione turistica del Botswana.
Sembrerebbe una insolita scoperta, il secondo delta fluviale al mondo emette metano? E gli altri delta fluviali possono disperdere anche loro metano in atmosfera?
E’ bene ricordare che il riscaldamento globale è associato al continuo aumento delle concentrazioni atmosferiche di gas serra (GHG) come protossido di azoto (N2O), anidride carbonica (CO2) e metano (CH4). Questi gas N2O, CO2 e CH4 sono aumentati significativamente rispetto agli anni preindustriali, tanto che il CH4 è diventato il secondo gas serra più abbondante nell’atmosfera dopo il CO2. La capacità dei GHG di intrappolare la radiazione termica riflessa dalla superficie terrestre ha aumentato la temperatura media globale di 0,3–0,6°C nell’ultimo secolo. I suoli anossici delle zone umide costituiscono la più grande singola fonte naturale di CH4 atmosferico nel mondo.
Come detto, l’area del delta dell’Okavango è stata oggetto e continua ad esserlo, di interesse per molte comunità scientifiche. Gli studi di riferimento effettuati sul Delta dell’Okavango sono:
In sintesi, ciò che emerge con forza da questi studi è che:
1 – Le emissioni di CH4 delle zone umide sono, tuttavia, ecosistemiche specifiche con grandi variazioni spaziali e temporali controllate dagli ambienti climatici e pedologici che influenzano i processi di crescita delle piante, decomposizione della sostanza organica del suolo, produzione di CH4 (metanogenesi) e ossidazione (metanotrofia).
2 – È stato dimostrato che le variazioni spaziali e temporali della temperatura del suolo, della profondità della falda freatica e della quantità e qualità della materia organica decomponibile influiscono in modo significativo sui tassi di emissione di CH4 anche all’interno di un unico ecosistema di zone umide.
3 – Ciò implica, quindi, che per ottenere stime globali accurate delle emissioni di CH4 dalle zone umide, ogni tipo di ecosistema deve essere valutato separatamente e rigorosamente per i livelli di emissione di CH4 e le loro fluttuazioni naturali.
4 – L’area del delta è stata descritta come sensibile agli eventi estremi di cambiamento climatico dovuti al riscaldamento globale. Si prevede quindi che i tassi di emissione nel Delta cambino con i cambiamenti climatici, oltre alle variazioni stagionali. Per valutare tali cambiamenti, è necessario valutare e quantificare gli attuali tassi di emissione nel Delta.
Nel nostro bel Paese cosa accade al Delta del Fiume Po? Nel febbraio del 2019 la collega Sibilla Zambon scrive: il metano e la sua estrazione nel Polesine – un sogno che diventa incubo.
“Fino a poco fa, i pozzi per l’estrazione del metano in Polesine continuavano a lavorare. Le conseguenze le conosciamo un po’ tutti ma è sempre bene ricordarle: l’abbassamento del suolo e l’aumento della possibilità di alluvioni nel territorio. Parlo quindi del fenomeno della subsidenza, che dagli anni ’30 agli anni ’60 ci ha caratterizzati. Di solito avviene in modo naturale ed è lento, ma nel nostro caso, proprio a causa delle trivellazioni la cosa si è velocizzata. In cosa consiste? E’ appunto, l’abbassamento del suolo dovuto a processi geologici dell’ambiente stesso (come i movimenti tettonici, costipazione dei terreni, l’ossidazione delle torbe) oppure può avere natura antropica, ossia legato all’azione proprio dell’uomo. Ovvero causata da noi. Lo sprofondamento comportato ci ha reso più vulnerabili ad inondazioni, basti pensare a quella del 1951. L’estrazione fu giustamente sospesa e da allora si eseguono costanti interventi per mantenere la sicurezza….nel 1935 le prime perforazioni con ben 13 pozzi e una centrale di compressione… nel 1939, il numero dei pozzi era lievitato a 64 e le centrali triplicate….nel 1946 il gas estratto superava i 26 milioni di m³ e nel 1950 erano qualcosa di pazzesco: 170 milioni di mq. I pozzi attivi erano 993 nell’anno in cui ci fu la terribile e devastante alluvione del Po del 1951…nel 1959 si parlava di 1424 pozzi per la bellezza di oltre 281 milioni di mq di gas. Lo sprofondamento raggiunse punte di 3,5 m e il nostro amato delta era quello che rischiava maggiormente. Il 1961 fu l’anno della svolta. Tutte le centrali comprese tra Adria e il mare dovettero chiudere “baracca e burattini” e finalmente questo problema venne preso in modo serio e trattato per porvi rimedio. Il Consorzio di Bonifica si occupa della salvaguardia del territorio, compresi gli interventi per arginare proprio questo fenomeno”.

Considerazioni. Il Dipartimento per il monitoraggio e la tutela dell’ambiente e per la conservazione della biodiversità dell’ISPRA, gestisce l’inventario delle zone umide del territorio italiano.
Le zone umide d’importanza internazionale riconosciute ed inserite nell’elenco della Convenzione di Ramsar per l’Italia sono ad oggi 57, distribuite in 15 Regioni, per un totale di 73.982 ettari. Inoltre sono stati emanati i Decreti Ministeriali per l’istituzione di ulteriori 9 aree e, al momento, è in corso la procedura per il riconoscimento internazionale: le zone Ramsar in Italia designate saranno dunque 66 e ricopriranno complessivamente un’area di ettari 77.85. Per quanto rileva il WWF, in occasione della Giornata Mondiale delle Zone Umide e secondo le stime attuali, infatti, sarebbero circa 771 miliardi di tonnellate di gas serra (soprattutto CO2 e metano) che verrebbero rilasciate da questi ambienti se fossero bonificati, una quantità insomma pari a quella attualmente in atmosfera.
Per la comunità scientifica, ciò che accade nel Delta dell’Okavango per le emissione in atmosfera di gas metano, è ben nota. Parlarne, probabilmente, genererebbe troppa confusione al “popolino” considerando che, facendo due conti, è solo il 5% di queste emissioni che non sono da addebitare alle aziende di combustibili fossili, discariche e allevamenti; i conti non tornano.
Nel nostro bel Paese, in particolar modo in Basilicata, possedere l’esatta posizione dei tracciati delle centinaia di chilometri di metanodotti ed oleodotti, è un lusso destinato ai pochi. Neanche gli uffici tecnici dei Comuni da noi interpellati, attraversati da tali strutture e che, probabilmente hanno rilasciato una autorizzazione, hanno a disposizione tali tracciati. Per non parlare dei siti una volta oggetto di estrazione ed oggi abbandonati, senza uno straccio di studio di ripristino dello stato dei luoghi, sono sconosciuti a tutti; anche se per questa tematica, tra breve, saranno espletate specifiche indagini.
Noi di Cova Contro abbiamo studiato il problema legato alle emissioni in atmosfera di metano nel Comune di Stigliano. Inizialmente si era pensato fosse legato alla forte presenza di allevamenti, che sono posizionati quasi a ridosso di nuclei abitati. Nelle conclusioni dello stesso si legge: “Sicuramente gli allevamenti potrebbero giocare un ruolo aggiuntivo come sorgente emittente tuttavia il principale contributo sembra provenire dall’area dell’oleodotto/metanodotto.“