
Nel 1990 una ricerca di sociologia dei processi culturali delle Università di Napoli e Firenze analizzò in Basilicata il rapporto tra modernizzazione e sistema politico, e ne descrisse lo “stato di transizione”.
Dopo il fallimento della modernizzazione della chimica di Stato e gli interventi di risanamento ambientale a cui fu chiamata, veniva importata dall’industria petrolifera nazionale di Eni e transnazionale di Shell un’altra modernizzazione. Questa ricerca può aiutarci oggi a rileggere la transizione da quella che definirono “terra senza sviluppo” a una terra di imperativo estrattivo politico?
Pedagogia dei protettori. Prima che per i politici lucani, all’incirca dagli anni ’90, diventasse atavico il dilemma estrarre o non estrarre petrolio, problema conosciuto più semplicemente in altre aree del pianeta come “imperativo estrattivo” e propinato allo slogan di “senza estrazione non c’è sviluppo”, era altra l’eredità culturale scomoda con cui combattere. Si chiamava clientelismo, e secondo i meridionalisti riproduceva molti caratteri della “signoria patrimoniale” e notevoli continuità con precedenti sistemi feudali. Nel tempo il clientelismo non è rimasto fermo. “Un esempio paradigmatico del passaggio dal clientelismo notabiliare al clientelismo di partito in Basilicata – riporta la ricerca – è la gestione dell’Ente di riforma agricola”. Sono anni quelli dell’Ente di cui si parla, che vedono già in essere un sistema organizzato sul contrasto tra una forte subalternità su base verticale, e “una concorrenzialità orizzontale tra i lavoratori dovuta all’esigenza di garantirsi posizioni privilegiate nel rapporto di fedeltà con la notabile, atto ad assicurare lavoro e protezione”. Anni in cui la mafia rappresentava già una notabile in Basilicata, un’autorità ben inserita coi suoi broker proprio in agricoltura. Come nel resto del Mezzogiorno in Basilicata l’autorità costituita da grandi proprietari terrieri che elargivano favori prima, era stata sostituita dal ceto burocratico apparentato al potere politico. Il dopoguerra lucano fu caratterizzato dall’egemonia democristiana, fatta di funzionari pubblici che provenivano dallo stesso ceto politico e facevano da tramite tra società e sistema politico. Con la Riforma agricola la “funzionalità di conservare relazioni clientelari e la radicata convinzione dei funzionari dell’incapacità degli assegnatari di gestire con razionalità e indipendenza la propria produzione, per evidenti limiti culturali, portano a giustificare l’autoritario paternalismo, considerato come logica funzione pedagogica”. E come padri giustificati dall’ignoranza dei figli i politici gestirono la Riforma insegnando la logica protettore/cliente.
Terra di patroni e apatici subalterni. E se già alla fine dell’Ottocento si studiò il clientelismo come oggetto d’analisi concependo le clientele “come una forma di transizione dalla mafia al partito politico”, la più recente Riforma agricola di cui si sono occupati storici e sociologi post guerra mondiale, dipinge un periodo che ha visto consolidarsi in Basilicata quelle che vengono chiamate “relazioni verticali diadiche”. Relazioni che tendono a cristallizzare rapporti e ruoli sociali utili tra individui ricorda la ricerca, e sono proprie del clientelismo di partito. La domanda è: esistono ancora? Prendiamo un caso recente. L’ex direttore Arpab Vincenzo Sigillitto. Viene messo a capo dell’Ente di controllo ambientale pubblico dal sistema politico di centro-sinistra che da decenni ha il predominio in regione, come prima lo aveva avuto la DC. Arrestato nell’ambito d’una inchiesta per disastro ambientale viene spostato ad altro ufficio, ad altra dirigenza. La relazione tra sistema politico e funzionario è ben cristallizzata come si vede. “Il ricorso a solidarietà verticali tradizionalmente caratterizzantesi nei vincoli di compària e nelle clientele – si scrive –, sottintende la subalternità del cliente al patrono, perpetuando così la tradizione feudale, fondata sulla dicotomizzazione della società”. In questo modello dicotomico rientra, si spiega, “una cultura religiosa permeata da elementi di fanatismo e superstizione funzionali al controllo sociale repressivo della vecchia concezione padronale”, e rientrano “aspetti sociali” importanti come l’apatia e la scarsa partecipazione, ritenute cause della mancanza di azione collettiva. Apatia e scarsa partecipazione in Basilicata non sarebbero, si ricorda, l’effetto del familismo amorale individuato da Banfield (Le basi morali di una società arretrata, Il Mulino, Bologna 1976, ndr), piuttosto l’effetto della “consapevolezza di una progressiva marginalità sociale nel processo di modernizzazione”. Un po’ come dire che in Basilicata i lucani sono apatici perché sanno di non contar nulla nella modernizzazione nazionale, sanno di essere fuori dal modo in cui l’Italia si ammoderna.
La politica che frena lo sviluppo. Nonostante il radicamento di questa mentalità di accettazione passiva di sottosviluppo la Basilicata ha vissuto un tipo di “modernizzazione importata” che, proprio per via del ruolo marginale che ha avuto nello sviluppo del Mezzogiorno dicono, ha visto ingenerarsi un’avvertibile “divaricazione tra soggetti sociali”. L’élite modernizzatrice lucana ha importato “dall’esterno sia le risorse economiche sia quelle politiche, in quanto garantite dai collegamenti con il sistema politico nazionale”. In definitiva si scrive in quegli anni Novanta, “il ceto politico burocratico che guida il processo di sviluppo assistito della regione trae la propria legittimità da una funzione di mediazione più che da un’azione innovativa tesa a modificare le strutture produttive e sociali, privilegiando relazioni verticali incentrate su una staticità dei ruoli sociali proprie della tradizionale società ascrittiva e profondamente inadeguate a soddisfare i valori acquisitivi della società moderna”. Poi però, e arrivato il giacimento su terra ferma più grande d’Europa. E sono arrivati tanti soldi dalla Banca Centrale Europea a sostenere il business petrolifero. E sono arrivate le risorse garantite anche da un sistema sovranazionale. Non c’è dubbio che in Basilicata lo sviluppo economico sia da sempre condizionato dall’esterno, e che il potere di drenare i soldi della nuova classe politica piccolo-borghese abbia avuto come dice la ricerca, e forse ha ancora, un ruolo prioritario come freno a un processo di modernizzazione esogeno. Un’economia organizzata intorno alla capacità dei politici di far arrivare risorse economiche ha ingenerato un fenomeno di “modernizzazione senza sviluppo” scrivono. L’idea che l’economia sia in grado di sopravvivere solo grazie a un supporto esterno collegato al politico di turno ha prodotto un’immagine della Basilicata come terra di patroni, con un passato maledetto fatto di tradizioni sorpassate da processi di modernizzazione sempre più presenti nel resto d’Italia.
La partitocrazia economica lucana. “La centralità della classe politica regionale – si scrive – è confermata dal primato a essa riconosciuto di influenzare la vita politica della regione, e ribadisce la rilevanza assunta dal sistema politico nel processo di sviluppo lucano fin dall’immediato dopoguerra”. Esempi di centralità della classe politica non mancano. Come quella di Colombo nel partito regionale della DC, che nonostante scemò negli anni portò a un accordo politico che diede stabilità interna alla giunta regionale. Dal 1972 la stabilità fu garantita anche dal partito socialista, che governò assieme ai democristiani. In alcune aree geografiche i socialisti avevano potuto contare su una propria base, autonoma da un apparato di partito debole, che garantì l’ingresso in giunta per la gestione degli assessorati alla sanità e all’istruzione. Semplici ruoli, utili in quella dinamica di formare basi locali per ottenere un certo potere che caratterizzò negli anni Settanta anche la vita interna del partito comunista. L’istituzione della Regione ha permesso alla classe politica di acquisire spazi politici autonomi, decisionali e di gestione. E se in Italia si favorì una programmazione globale, la Basilicata politica optò per progetti su singoli problemi riguardanti contesti subregionali, prassi che nei territori iniziò a vedere scarsa risoluzione dei problemi e il sovrapporsi di potere economico e politico. La Basilicata ha visto certo trasformarsi modelli e stili di vita della gente, ma soprattutto una modernizzazione calata “dall’alto”, da una centralità del potere politico che a volte, a livello giudiziario, s’è mostrata con esempi di spietata amalgama col potere economico. Alle politiche del 2001 un politico locale di centro-destra vicino a una cosca della ‘ndrangheta che fa anche l’imprenditore, da un lato al telefono parlava di appalti pubblici con portaborse e segretari di centro-sinistra, dall’altro spiegava al capocantiere come la politica “prende per fesso le persone”, facendogli capire che gli imprenditori sono “i mezzi per prendere in giro le persone”. In una dinamica di appalti pilotati da assunzioni che rappresentano voti è più utile una relazione di reciprocità tra potere economico e politico. In questo mondo dove c’è una certa contiguità tra rete mafiosa, rete di assunti, e rete del consenso elettorale che l’imprenditore-politico si porta dietro come personale pacchetto esperienziale, si riassume il modo in cui, attraverso trasversalità politica e controllo sociale, si sia portato avanti un modello aggregativo di poteri.
La nuova Basilicata. Con il tempo, grazie all’interazione con culture altre createsi con tre grosse ondate emigratorie spiega la ricerca, e grazie alla diffusione dell’informazione d’attualità e della cultura di massa con la televisione (a cui oggi va aggiunto l’uso di internet), s’è allentata la “rigida staticità dello sviluppo senza modernizzazione” in mano ai politici. Si è avuta qualche spinta di economia non controllata da politici di turno che fanno arrivare soldi. Nonostante è risaputo che la nascita delle Regioni nel 1970 non abbia assicurato la maggiore efficienza amministrativa prevista in Italia, nel ’87 si parlava positivamente di caso Basilicata. La Basilicata amministrativamente efficiente della fine degli anni Ottanta è rimasta terra di invecchiamento ed emigrazione. Tra 2001 e 2015 la regione ha avuto un calo demografico di circa ventiquattromila persone. Oggi 101 comuni soffrono un disagio abitativo. Il trenta per cento delle case lucane è vuoto per via d’uno spopolamento che viaggia dal 2002, stando all’Istat, a una media che supera il migliaio di emigrati l’anno. Ma è anche la Lucania questa. Terra che già nel doppio nome presenta una “mancanza di precisa identità culturale” dicono i sociologi, una base di “intrinseca disomogeneità” riscontrabile nella diffusione dei dialetti conferma la ricerca, e nella divisione in aree geografiche gravitanti piuttosto verso l’esterno della regione. A questa analisi si sovrappone con forza l’immagine d’una Basilicata letteraria, e leviana nell’anima, individuata in alcuni caratteri comuni d’una mentalità contadina fondata sulla “pietà, la compassione, la rassegnazione, la bontà naturale, il senso ineliminabile della giustizia, la tenace diffidenza verso le autorità, l’aspettativa messianica di una trasformazione”. Di recente però, un deputato indigeno ha diffuso una diversa immagine di gente che sa attendere, di mansueto popolo di individualisti a caccia di rapporti privilegiati con il politico di turno.
Scenari e etica mafiosa. Quando in Italia entrò in crisi il modello di redistribuzione delle risorse pubbliche esterne, in Basilicata e in generale nel sud, la gestione delle forme di regolazione dello sviluppo assistito imperniato di scambio clientelare, comportò che le stesse pratiche clientelari a lungo basate su una società ascrittiva con ruoli sociali prescritti e stabili, diventarono “funzionali a uno scambio politico strettamente strumentale”. Adesso bisognava garantire nell’immediato la salvaguardia dei reciproci interessi dei contraenti. Si spiega che la Basilicata vide in questo periodo il costituirsi d’una struttura economica moderna che innestò maggior mobilità verticale, ma compromise la stabilità sociale moltiplicando luoghi e modi dove la conflittualità tra individui e gruppi si manifestava. “L’asimmetria tra una nascente struttura economico-capitalistica – conclude la ricerca – e il permanere di una struttura culturale che conserva tratti di tradizionalismo, laddove non trovasse fonti di bilanciamento, può essere la causa di un fenomeno mafioso in cui l’adattamento dei valori tipici della società tradizionale – l’onore, il familismo amorale, ecc. – al valore dell’acquisività – tipico della società moderna -, può connotare pratiche imprenditoriali orientate all’ampliamento della sfera delle attitudini arcaiche e predatorie proprie dell’imprenditorialità mafiosa”. Dove è forte una logica patrono-cliente, scrivono, come in Basilicata, la funzione regolativa svolta dal mercato e la capacità di controllo in essa esplicata dal potere politico possono essere incrinate dal doppio ruolo di mediazione svolto dall’imprenditoria mafiosa. Questo scenario lucano descritto doveva servire a sottolineare l’importante fase di passaggio verso la modernità della Basilicata, passaggio che non sempre si era fatto conoscere per un agire legale-razionale, ma purtroppo talvolta anche per l’etica mafiosa.
Politica degli affari e affari della politica. Lo scenario prospettato fa aprire un capitolo di Politica, clientela e regolazione sociale del ’93 di Pietro Fantozzi dell’Università della Calabria. Si ricorda che tra mafia e clientela c’è sempre stata una certa affinità nonostante il rapporto patrono-cliente ha subito profonde modificazioni. “All’interno di questa relazione sociale (patrono/cliente, ndr) – si scrive –, sono cresciuti di rilevanza gli aspetti d’interesse e si sono indeboliti quelli più specificatamente di appartenenza”. Il clientelismo familistico popolare, si precisa, quello “fondato sul forte senso di reciprocità e sullo scambio di raccomandazioni, posti di lavoro, favori di ogni genere, ha perso rilevanza, sostituito da lobbies che tendono a scambiare grandi quantità di danaro, e per questo motivo suscitano l’interesse dei ceti alti e gruppi sociali che dispongono di strumenti e capacità adeguate per captare la gestione di ingenti risorse”. Quante inchieste giudiziarie hanno accertato in Basilicata ceti alti e gruppi sociali capaci di captare la gestione di ingenti risorse? Diverse risulta. E se le normali lobbies o gruppi di potere hanno per lo storico calabrese come presupposto il controllo della produzione e della distribuzione di beni e servizi, le nuove aggregazioni presuppongono (e ci si può chiedere ad esempio se sia il caso degli oligopoli accertati dalla magistratura nell’ambito del mercato dei rifiuti in Basilicata) l’acquisizione di risorse da destinare alla legittimazione politica, alla speculazione finanziaria, all’arricchimento personale, al controllo di un mercato inteso come politica degli affari. In Basilicata la modernizzazione del settore petrolifero, dall’estrazione alla raffinazione allo smaltimento dei suoi rifiuti, si è portata dietro questa politica degli affari e inchieste giudiziarie che hanno visto protagonisti funzionari, imprenditori, rappresentanti delle forze dell’ordine, politici, ceto bancario, tutti uniti per il controllo di settori di mercato e saccheggiare il territorio. Inchieste che raccontano come questa Basilicata modernizzata dall’industria del petrolio e da interessi nazionali e transazionali, abbia generato a livello locale un sottobosco di relazioni politico-economiche criminali che ha necessità d’entrare in quello che chiamano “Olimpo dei miracolati” delle lobbies del settore. Ci sono passati ministri sottosegretari amministratori delegati presidenti assessori sindaci direttori e imprenditori soci di mafiosi per l’Olimpo. E da un lato hanno come protagonisti Stato e multinazionali che hanno reso con lo Sblocca Italia l’estrazione un “imperativo” per lo sviluppo e la modernizzazione, dall’altro una terra che dopo decenni di estrazione resta infrastrutturalmente sottosviluppata, inquinata, e a forte spopolamento, e che nei primi quindici anni del terzo millennio ha visto spesso solo acclarata la modernizzazione operata da lobbies affaristico-mafiose capaci di connettere sistema economico e sistema politico.
servirebbe una nuova inchiesta sociologica