In questa seconda parte (a questo link la prima) leggeremo la storia, in estrema sintesi, degli smaltimenti di rifiuti radioattivi in mare attraverso documenti di sorveglianza ambientale. Dove, cosa e come si è smaltito? Quali effetti il tempo ha sui rifiuti inabissati?

mappa generale


Nel 1985 la Nuclear Energy Agency (NEA, ndr) dell’Organizzazione per la Cooperazione economica e lo
sviluppo
(OCSE, ndr), iniziò il “Programma di sorveglianza ambientale e ricerca coordinata” (CRESP, ndr)
sui siti di smaltimento di rifiuti radioattivi in mare. Allora si stabilì un rischio di contaminazione minimo, ma
si sottolineò l’assenza di una baseline di dati biologici che rendeva difficile giungere a conclusioni
definitive sugli impatti ambientali. Finché fusti e contenitori avrebbero tenuto sarebbe andato tutto bene. Già allora
però, confrontando analisi dal 1966 al 1980, riportarono che l’accumulo di Stronzio90 e Cesio137 nelle
anemoni vicino un vecchio sito di smaltimento aumentava nel tempo, una evidenza dovuta ai fusti che
percolavano1. Certo in mezzo secolo di smaltimenti di rifiuti radioattivi approvati da autorità nazionali e
internazionali come la OCSE/NEA, 14 Nazioni hanno utilizzato più di 80 luoghi in mare per smaltire
ufficialmente 85 Peta Becquerel (Pbq, ndr) di rifiuti radioattivi.
Parliamo di 85 milioni di miliardi di Bequerel
che è l’unità di misura della radioattività.


Negli Stati Uniti, riporta una pubblicazione2, l’interesse commerciale per lo smaltimento in mare ebbe un
declino negli anni Sessanta, cessò nel 1970, e rivide un rinnovato interesse nei primi Ottanta, tanto che nel
1984 il National Advisory Committee on Oceans and the Atmosphere annullò l’esclusione dell’oceano
come luogo di smaltimento. Tra le ragioni c’era certamente la reazione dell’opinione pubblica
all’inquinamento degli oceani. Ma c’erano i soldi sopratutto. Smaltire il classico fusto da 200 litri in mare
costava 48 dollari e 75 centesimi, sulla terra 5 e 15. Così nel 1962 l’Atomic Energy Commission (AEC, ndr)
autorizzò la prima impresa privata a smaltire sulla terra rifiuti radioattivi. Al tempo non esistevano criteri per
rilasciare le licenze allo smaltimento, e molti anni dopo i siti di: West Valley, Maxey Flats, e Sheffield furono
chiusi per un inaspettato rilascio e trasporto di radionuclidi nelle acque di falda.
Negli Stati Uniti
l’AEC regolamentò lo smaltimento in mare nel 1954 seguendo la raccomandazione della National
Academy of Sciences
secondo cui la diluizione nelle acque oceaniche sommata al decadimento
avrebbe comportato un livello di radiazioni innocuo e un rischio minimo per l’uomo. Oltretutto,
scrivevano, smaltire in mare era economico e di facile accesso. Così se sino al 1959 solo le forze armate condussero operazioni di smaltimento in mare, in seguito l’AEC autorizzò altre sette imprese private.


Negli USA in mare si smaltiva secondo le direttive del National Committee on Radiation Protection del 1954.
Gli affondamenti dovevano avvenire a circa 1.800 metri, utilizzando il classico fusto petrolifero come contenitore dove i
rifiuti venivano miscelati con calcestruzzo cementante, in modo da assicurare l’affondamento e resistere alle
pressioni in acque profonde. A volte si trattava di semplici blocchi di cemento armato di varie misure. A ogni
modo scrivono che per i contenitori le configurazioni generali di progettazione non erano intese come
permanenti, fornivano una stima di 10 anni di contenimento di radionuclidi nell’ambiente marino.
Nel
1971 il National Research Council stimò che il 95% dei contenitori smaltiti in mare erano fusti da 200
litri. Più di 60 siti di affondamento erano distribuiti tra i 5 maggiori luoghi di smaltimento nel Pacifico, 1 nel
Golfo del Messico, 11 nell’Atlantico
. Si riporta che tre siti hanno ricevuto il 90% dei rifiuti. Tra il 1946 e il
1970 nel Pacifico in 34 siti calarono a picco 56.261 fusti.
Nel Golfo del Messico prima del 1959 in due siti vennero collocati 79 fusti. Nell’Atlantico, dal 1951 al 1967, in 24 siti, 34.203 fusti, inclusi fusti di rifiuti liquidi e rifiuti non
infustati (foto 1).

foto 1


Anche gli Stati europei hanno smaltito in mare (foto 2). Nel 1967 la Francia di fronte le coste portoghesi e
spagnole, a 5.000 metri di profondità, smaltì 31.596 fusti di rifiuti radioattivi
. Nel ’69, di fronte le sue coste e
quelle spagnole e inglesi, a oltre 4.000 metri, altri 14.800.
Scaricava fusti di rifiuti radioattivi di fronte le coste
portoghesi anche la Germania, che inabissò tra 2.500 e 5.000 metri 480 fusti
. L’Italia per 100 fusti scelse i
4.000 metri sotto la superficie del mare. L’Olanda tra 3.000 e 5.000 metri di fusti ne affondò 28.428. La Svezia a circa 5.000 metri nell’Atlantico 2.845 fusti, nel Baltico, a soli 400 metri di profondità, 230. Tra ’69 e ’82 la Svizzera scaricò
nell’Atlantico tra 3.000 e 5.000 metri di profondità 7.470 fusti, il Belgio dal 1960 al 1982 in sei diversi luoghi
231 milioni di chili, 55.324 fusti di rifiuti radioattivi
(un numero spropositato quello belga tenendo conto della produzione di rifiuti interna). A comandare la classifica europea furono gli inglesi (foto 3). Nel solo Atlantico 74 milioni di chili. Dal 1950 al 1963 oltre 16 milioni a 140 metri di profondità nel canale della Manica, a poche miglia dalla
città francese di La Hague. Non andavano per il sottile per sbarazzarsi di rifiuti radioattivi, tanto che di fronte
le coste di Lowestoft buttarono fusti di rifiuti liquidi ad appena 25 metri di profondità, e in vari punti a poche
miglia dalle loro coste e da quelle irlandesi, e a bassissime profondità, scaricarono fusti con solidi e liquidi
contaminati da Cesio, o da Cobalto60.

foto 2
foto 3


I Russi non furono da meno (foto4a-b). Nell’Artico scaricarono oltre 200 milioni di metri cubi di rifiuti
radioattivi, molti a bassissime profondità, e come USA e Gran Bretagna in alcune operazioni scaricarono direttamente in mare i rifiuti liquidi, nemmeno infustati. Nei siti di smaltimento russi e norvegesi la
videocamera di un sommergibile riprese numerosi fusti e container tra i fiordi Tsivolky, Stepovogo e
Abrosimov con gravi danni da corrosione.
Nel Fiordo Stepovogo fusti bucati a soli 50 metri di profondità,
nel Fiordo Abrosimov, a meno di 20 metri sott’acqua tre cargo affondati, uno di essi all’apice della stiva
aveva due container cilindrici di 2-3 metri di diametro per 10 di lunghezza.
Furono localizzati tre reattori, su
due si rilevò Cesio137, su un altro Cobalto60. Un quarto menzionato dai russi non fu mai trovato nelle
spedizioni. E trovarono numerosi contenitori e fusti, alcuni pesantemente corrosi, altri con fori
probabilmente provocati dalle operazioni di smaltimento in mare. Nei sedimenti vicini fu rilevato
Cesio137. Rifiuti radioattivi che non avevano influenza sui livelli generali di contaminazione dissero, però la
contaminazione nei fiordi era causata dai rifiuti che percolavano, e il rilascio di radionuclidi era un
processo a lungo termine che dipendeva dalla corrosione in rapporto a clima, qualità e quantità delle
barriere di protezione, e alle forme fisico-chimiche dei radionuclidi3. Già allora purtroppo, come visto tra i fiordi del Baltico era accaduto che molti bidoni, spesso semplicemente gettati giù da navi (foto 5), si danneggiassero già nelle operazioni di affondamento, creando problemi. Nel 1992 i rilievi nei siti di smaltimento nel Nord Est dell’Atlantico fatti dal Marine Environment Laboratory4 dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA, ndr), misero in evidenza elevate concentrazioni di Plutonio238 nell’acqua dei campioni prelevati dove c’erano perdite dai bidoni. In alcuni luoghi nell’acqua erano aumentate anche le concentrazioni di Plutonio293 e 240, Americio241 e Carbonio14.

foto 4B

Le preoccupazioni per perdite di sostanze radioattive non erano solo dell’Europa. Anche gli Stati Uniti
monitorando i siti nell’Atlantico e Pacifico usati per smaltire avevano riportato che nelle vicinanze dei luoghi
di smaltimento c’erano livelli elevati di isotopi di Plutonio e Cesio5. Nel 2010, la Commissione per la
Protezione dell’Atlantico nord-orientale (OSPAR, ndr) e la IAEA ribadirono che gli involucri non erano
progettati per confinare i radionuclidi per decine di anni, piuttosto a garantire che i rifiuti fossero
trasportati intatti sul fondo marino6. Sapevano però che era successo che fusti e container fossero stati
danneggiati nelle operazioni. Per capire cosa era accaduto a quei fusti bisogna arrivare al 2013, quando
all’OSPAR fu consegnato dal Governo Tedesco un report sul programma di ricerca sui siti storici di
smaltimento di rifiuti radioattivi in mare, e sul rilascio di radionuclidi. Basandosi sulla conoscenza acquisita che in mare i fusti si perforano dopo un periodo minimo di 10-40 anni, si rivelò che i fusti nei siti di smaltimento 3 e 4 (foto 6) erano in buone condizioni, ma ce n’erano anche deformati e corrosi (foto 7). Risultati simili furono riportati nel 1984 dopo il recupero di tre fusti nel sito 4. Su uno mancava il coperchio (foto 8), un altro mostrava una contaminazione superficiale principalmente da Americio241. Le crepe negli involucri rilasciavano piccole quantità di materiale radioattivo, e i risultati confermavano i tempi di rilascio stimati (foto 9), ed erano oltretutto coerenti ai risultati ottenuti nei siti di smaltimento statunitensi che avevano ripescato fusti corrosi (foto 10), e osservato negli anni un aumento di
Cesio137 di dieci volte. Durante la campagna tedesca tra 1979 e 1992 furono prelevati 158 campioni nei
pressi del sito di smaltimento del 1967 (numero 1 in foto 6). Nel 1983 furono riscontrate elevate
concentrazioni di Cesio137 e Stronzio90 in sei campioni di diverse specie. Inoltre in campioni di
holuthuriodea e actiniaria prelevati vicino i fusti durante la campagna dal 1985 al 1992 nel sito di
smaltimento dal 1977 al 1982 (study site B, foto 11), furono rilevati elevati livelli di Plutonio239 e 240. Anche
in questo caso c’era l’evidenza di perdite dai fusti e accumulo di radionuclidi nella catena alimentare.

Per le tonnellate di rifiuti scaricati in mare nel 2015 la IAEA assicurò solo che dal 2050 ci sarebbe stata una
riduzione al 11% dell’attività radioattiva rispetto a quando erano stati inabissati7
. Come accaduto mezzo
secolo prima, nel terzo millennio la soluzione all’inquinamento radioattivo restava la diluizione e il
decadimento.

foto 5
foto 6
foto 7
foto 8
foto 9
foto 10
foto 11

La FAO nella perimetrazione della aree di pesca ha tenuto conto di questi siti di smaltimento? L’ONU ed altri organismi sovranazionale hanno monitorato dettagliatamente gli impatti, come e quando non lo comprendiamo. I vari lavori svolti per condotte e cavi sottomarini, infrastrutture offshore e militari o di ricerca si sono mai imbattuti in queste discariche e con quali implicazioni? Sotto alcune immagini di uno studio tedesco svolto tra gli anni ’70 e ’90 sull’ingresso nella catena alimentare oceanica di alcuni radionuclidi artificiali:

Elevati livelli di radionuclidi artificiali, inclusi il plutonio, vennero rinvenuti dai tedeschi in alcune spedizioni scientifiche di studio sulle specie abissali (programma CRESP), le quali stavano bioaccumulando radionuclidi in elevati tenori vicino le aree di smaltimento della NEA, fonte: pag. 18, https://www.swr.de/-/id=13132940/property=download/nid=233454/12heab2/index.pdf

In aggiunta caldeggiamo la visione dei filmati sottostanti, gli impatti sulle comunità di pescatori, l’attivismo di Greenpeace che negli anni ’80 fisicamente ostacolava il rilascio di bidoni in mare, a volte a caro prezzo, immagini che fanno rabbrividere e riflettere:

Sitografia:

1 Interim oceanografic description of the North-East Atlantic site for the disposal of low level radioactive waste, Nuclear Energy, Agency Organisation For Economic Co-Operation and Development, January 1983.
2 History and Framework of Commercial Low-Level Radioactive Waste Management in the United States, ACNW White Paper
Advisory Committee on Nuclear Waste U.S. Nuclear Regulatory Commission Washington, DC.

3 Dumping of radioactive waste an radioactive contamination in the Kara Sea, Results from 3 years of investigations (1992-1994) performed by the Joint Norwegian-Russian Expert Group, March 1996.
4 M. Baxter et al., Marine radioactivity studies in the vicinity of sites with potential radionuclide releases, Proc. Int. Symp. On Environmental; Impact of Radioactive Releases, IAEA, Vienna, 1995.
5 United States National Oceanographic and atmospheric administration (NOAA), Communication from United States National Oceanic and Atmospheric Administration, USNOOA, 1995.
6 Position paper on the implications of deep sea disposal of radioctive waste. Prepared by the Secretariat in cooperation with IAEA.
7 Inventory of radioactive material resulting from historical dumping accidents and losses at sea: for the purposes of the London Convention 1972 and London Protocol 1996. Vienna, International Atomic Energy Agency, 2015.