Una sezione speciale su uno dei più importanti portali della comunità scientifica internazionale spiega il complesso rapporto tra industria estrattiva e società in America Latina.

exImperativo di Stato? Il concetto di imperativo estrattivo descritto nel contributo di Murat Arsel e Lorenzo Pellegrini dell’International Institute of Social Studies dell’Erasmus University Rotterdam (ISS, ndr), e di Barbara Hogenboom del Centre for Latin American Research and Documentation (CEDLA, ndr), si riferisce al complesso delle relazioni politico-economiche che si installano sullo sfruttamento delle risorse naturali, e formano le interazioni tra Stato e società. La pubblicazione è il risultato di diversi studi sul campo, e di una conferenza tenutasi all’ISS nel 2015 dove sono stati discussi e spiegati in varie sessioni. L’imperativo estrattivo, scrivono gli autori, oggi si manifesta principalmente attraverso politiche ambientali e di sviluppo che dipendono, e rinforzano, le stesse attività estrattive, e quindi chi le mette in pratica. Politiche che sin dall’inizio, conseguentemente a questa sorta di imposizione a estrarre, hanno collegamenti a una miriade di altre sfere. Sfere che nonostante il passaggio dal modello economico-sociale neoliberista a quello della svolta a sinistra sudamericana, hanno come comune denominatore politica, multinazionali, e banche. Secondo tale modello le attività estrattive sono trasformate in elementi vitali dello sviluppo di una nazione, perciò hanno bisogno di essere portate avanti in qualsiasi circostanza, a tutti i costi. L’aumento dei prezzi di beni estraibili come oro, rame, e petrolio a partire dal 2004 in America Latina, e la progressiva affermazione della nuova sinistra politica, hanno giocato un ruolo centrale nel trasformare l’intensificazione dell’estrazione di risorse naturali in una sorta di supremazia teleologica. In pratica una volta in essere l’imperativo estrattivo crea i propri meccanismi di legittimazione e dipendenza. Questi meccanismi sono realmente liberi da logiche capitalistiche?

Il vestito nuovo del neoliberismo. Col declino del potere Usa, il collasso del sistema finanziario globale e delle politiche neoliberiste, e l’emergere della Cina come Stato-guida nei mercati internazionali, è nato in America Latina un nuovo modello di gestione del capitale nazionale, economico, naturale o umano, per produrre trasformazioni sociali e culturali. La Cina ha rinforzato o stabilito alleanze strategiche con Brasile, Venezuela, Argentina, Cile e Ecuador, e i suoi investimenti e prestiti, spesso attraverso corporation e banche di Stato, sono aumentati massicciamente da metà 2000, con l’obiettivo di estrarre e trasportare petrolio e minerali. Come spiega Thomas Chiasson-LeBel del Political Science Department (York University Toronto, ndr), il conflitto di classe generato dal settore estrattivo ha influenzato il modello di sviluppo. Il prefisso neo, specifica l’autore, allude alla tendenza dei governi a perseguire l’estrattivismo giustificandolo col bisogno di generare rendite necessarie a supportare povertà e giustizia sociale come accaduto in Venezuela e Ecuador, sostituendosi così al modello neoliberista. L’uso della rendita del petrolio così giustificata contempla poco rischi economici e danni ambientali, promuovendo il clientelismo, ossia la distribuzione di beni in cambio di supporto politico. Si è così passati dalla lotta di classe contro un capitalismo avido a quella prodotta dalla frammentazione della popolazione per via delle tensioni generate tra comunità toccate da progetti estrattivi e dai loro impatti socio-ambientali, e la maggior parte della popolazione da essi non toccata. Il neo-estrattivismo è diventato la nuova arma di conflitto di classe.

La nuova narrativa dei conflitti. Le tensioni sociali sviluppate dai regimi post-neoliberisti, sottolinea “Losing ground? Extractive-led development versus environmentalism in the Isiboro Secure Indigenous Territory and National Park (TIPNIS)” di Jessica Hope sulla Bolivia del presidente Evo Morales, si sono risolte sempre a favore dell’estrattivismo, e a volte, come spiegano Nick Middeldorp, Carlos Morales e Gemma van der Haar nel caso dell’Honduras, investendo la rendita delle estrazioni invece che per ridurre la povertà per rafforzare Polizia e Esercito al fine di reprimere le proteste delle comunità impattate dai progetti, e usare violenza contro gli attivisti. Quella che in America Latina è stata definita svolta a sinistra, avvenuta per opporsi a un ingordo modello neoliberista che ha visto movimenti sociali, attivisti ambientali, e organizzazioni indigene non solo supportate dai leader della svolta che in qualche caso hanno lavorato fianco a fianco o assieme a essi, come chiarisce Lucia Gallardo in “Oil or life: the dilemma of the Yasuní-ITT Initiative”, mostra che i nuovi leader eletti anche grazie a iniziative ambientali su cui erano stati costruiti accordi, hanno finito invece per creare profonde spaccature tra diversi portatori di interessi in base al loro ruolo nella negoziazione sulle politiche di sviluppo. Negoziazione che avviene tra Corporation, politici locali e nazionali, rappresentanti di comunità e altre organizzazioni governative e non, coinvolte. Alla base di questa nuova narrativa del conflitto prodotta dall’imperativo estrattivo c’è una sorta di egemonia discorsiva. I discorsi attorno ai progetti estrattivi usano sempre i concetti di sviluppo e nazionalizzazione per il positivo potere emotivo che i loro ideali evocano.

Sviluppo senza eccezioni e resistenze. Nonostante l’esempio positivo descritto da Eduardo Silva a proposito della Patagonia, dagli studi emergono tre questioni principali. Prima di tutto se si guarda all’esperienza degli indigeni e delle comunità contadine si osserveranno gli impulsi contraddittori delle politiche di sviluppo in America Latina. In molti casi l’espansione delle frontiere estrattive e lo spossessare indigeni e contadini di territori e diritti sono stati giustificati come azioni fatte nel loro stesso interesse, per ridurre povertà attraverso investimenti in larga scala su trasporti, educazione e sanità. Una seconda questione riguarda il dissenso all’intensificazione dei processi estrattivi, e mostra come sta aumentando la criminalizzazione delle proteste al punto che in qualche caso movimenti, organizzazioni, e attivisti, sono perseguiti secondo leggi anti-terrorismo. Una terza questione riguarda i conflitti ingenerati. Invece di essere produttivi e diventare un punto di forza per un progressivo cambiamento, nel modello America Latina non fanno altro che ampliarsi secondo le condizioni imposte dal capitalismo globale, con lotte a lungo termine che vedono i potenziali risultati dei gruppi dissidenti spaziare da una sconfitta totale a una vittoria di Pirro. Alla luce di ciò, scrivono i curatori della pubblicazione Arsel, Pellegrini e Hogenboom che in un altro contributo descrivono il boom dei conflitti ambientali, i costi delle lotte nate dall’imperativo estrattivo vanno ben oltre quelli ambientali o economici. Riguardano indicatori di benessere come la libertà politica, l’identità comune, l’abilità a immaginare modelli di sviluppo alternativi. “I processi attraverso cui lo sviluppo è realizzato in America Latina – scrivono – ha svoltato in un imperativo che non ammette eccezioni e non tollera resistenze”.

Il modello Sblocca Italia. È d’obbligo una breve digressione sul modello italiano, dove le trivelle sono state sbloccate per decreto. Fa certo riflettere che nel luogo del giacimento petrolifero in terraferma più importante d’Europa, nella Basilicata dei recenti scandali al Ministero dello sviluppo per questioni petrolifere, a far accendere l’attenzione di un Ministero degli interni che come sottosegretario ha un lucano, siano state invece quelle associazioni regionali da far passare per le leggi anti-terrorismo che da anni denunciano i danni ambientali dell’estrazione. Sembra proprio che l’estrattivismo lucano non ammetta eccezioni e non tolleri resistenze. Fa riflettere che ai primi del 2000, Bankwatch, un’importante organizzazione che monitora banche e finanziamenti, aveva già denunciato le responsabilità dell’European Investment Bank (EIB, ndr) nella distruzione ambientale in Val D’Agri dovuta alle trivellazioni. Nel luglio 1999 l‘Eni, scrisse, iniziò l’esplorazione geosismica attraverso la R.i.g srl, la Schlumberger spa, e la Geco srl, ben collegate al Gruppo Eni, che per capire la dimensione del giacimento perforarono sotto trenta metri usando esplosivi, con operazioni in dodici comuni di cui uno solo aveva un piano di perforazione. Operazioni fatte senza Autorizzazione di impatto ambientale che in molti casi videro inaridire pozzi d’acqua, danneggiare case, e terremoti locali. “L’intera area è a rischio idrogeologico e sismicamente attiva – riportò Bankwatch –. Alcune esplosioni furono compiute in letti di fiumi e molto prossime a punti dove l’acqua sgorga da pozzi. Per di più due enormi dighe sono collocate nell’area e riforniscono d’acqua la maggior parte delle regioni Basilicata e Puglia”.

Banche multinazionali e pozzi. L’esplorazione geosismica comunemente utilizzata riferì Bankwatch, suggerisce l’uso di molti pozzi con tecniche estrattive brevi e rapide che non esplorano l’intero giacimento, tuttavia il petrolio sarà rapidamente estratto così che l’acqua salata prodotta dalle perforazioni dopo un po’ riempirà i pozzi e il terreno resterà instabile. A dicembre del ’99, a botti iniziati, l’EIB annunciò un prestito da 200 milioni di euro alla Enterprise Oil Italiana spa, controllata Agip, per sviluppare due giacimenti in Val D’Agri (prestito aumentato negli anni di altre centinaia di milioni di euro, ndr). Tempo dopo, continua il report, mentre la gente aspettava ancora le compensazioni per i danni, R.i.g., Schlumberger, e Geco, avevano messo in atto strane trasformazioni, e creato una join-venture con stessi legali e sedi operative, stessi direttori tecnici e stesso staff. Ma è solo l’inizio del modello lucano, dove pur di estrarre impresa finanza e politica si mischiano. L’industria estrattiva in Basilicata tra scandali giudiziari nella costruzione di ben due centri oli in una piccola regione, e scandali nella gestione illecita di rifiuti petroliferi e dei suoi impatti ambientali e sanitari, dal ’99 come se nulla fosse è arrivata sino a oggi. Vista la storia giudiziaria lucana è in atto una distribuzione di beni in cambio di supporto politico? I nuovi leader della svolta a sinistra nazionale, e regionale, eletti anche grazie a iniziative ambientali (si pensi a slogan tipo “neanche una concessione petrolifera in più” di Marcello Pittella in campagna elettorale o di altri politici della sinistra lucana), hanno finito per creare spaccature tra i diversi portatori di interessi? Quanta frammentazione della popolazione hanno prodotto le tensioni generate dai progetti estrattivi? E infine, quale sviluppo, con mezzo secolo di sfruttamento all’attivo, hanno portato le multinazionali del petrolio in Basilicata?