resti di sottoprodotti petroliferi sul fiume Basento.(foto: Andrea Spartaco, 2016)

L’industria petrolifera in Basilicata tra sperimentazione, “rischio sismico”, e salute

Sperimentare sostanze. Nel 2013 alla Offshore Mediterranean Conference and Exhibition venne presentato da Eni ed Halliburton uno studio dal titolo “Alte prestazioni dell’applicazione di fluidi di perforazione nello sviluppo in Val D’Agri”. Si afferma che sin dall’inizio del progetto nel campo Val D’Agri per molti pozzi hanno perforato una unità geologica contenente scisti sotto pressione e argille reattive. Nei primi anni, scrivono, i fluidi al lignosolfonato utilizzati portarono a molti fallimenti. Più tardi furono usati fluidi a base di potassio, incluso cloruro di potassio e un sistema a base di carbonato di potassio. Nessuno di questi fluidi fornì un’adeguata stabilità alla trivellazione, nonostante erano stati usati fanghi molto leggeri e a maggior rischio di andarsene in giro sottoterra. Insomma i problemi di trivellazione in Val D’Agri si conoscono, tanto che scrivono chiaramente che si tratta di “un’area ambientalmente sensibile” e che negli ultimi sedici anni per trovare un equilibrio tra “impatto ambientale” e “stabilità dei pozzi” in fase di perforazione hanno usato diversi fanghi a base d’acqua.

Trivellare e inquinare a casa d’altri. In ogni modo, si può leggere, ciò non stabilizzò le perforazioni e originò addirittura “una spinta idrostatica dell’unità geologica interna verso l’unità esterna”. E lo sanno dall’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia che l’area è classificata tra quelle “a maggiore potenziale sismogenetico”, e che le attività estrattive “contribuiscono ad accrescere il rischio sismico”. Ma non c’è verso, dopo aver già causato problemi di “spinta” geologica tra 2009 e 2013 reiniettano sottoterra quattro miliardi di litri di acque di processo. Per la Procura a Costa Molina 2 hanno reiniettato pure rifiuti pericolosi, quelli raccolti in un serbatoio del centro Oli di Viggiano che per la presenza di solventi utili a rimuovere idrogeno solforato non potevano essere smaltiti così. Ma non solo. Negli accertamenti portati avanti tra settembre 2013 e giugno 2014 scrive la Procura, la maggior parte dei rifiuti liquidi veniva smaltito presso l’impianto Tecnoparco Valbasento spa collocato in area Sito di interesse nazionale a livello di bonifica. Si riportano complessivi 439.105.720 di chili di rifiuti petroliferi, dei quali accertati come illecitamente smaltiti perché gli avevano taroccato il codice 42.606.650 chili. A Tecnoparco, anche se approssimativamente, per farcene un’idea, possiamo immaginare sono arrivati almeno 400 mila metri cubi di rifiuti petroliferi, due volte il cemento usato per costruire il nuovo One World Trade Center e renderlo sicuro da attacchi. Si può fare nella povera Basilicata che grazie a questo marchio fa incamerare paradossalmente alle Corporation fondi della Banca Europea per sviluppare il “petrolio locale”.

Buchi contorti e contaminazione. E c’è altro. Nel ’98, spiegarono ENI e Halliburton, avevano provato diversi sistemi per ridurre l’impatto ambientale dei rifiuti da fanghi di perforazione, causati principalmente da sali di cloruro solubili e carbonato di potassio. Tutti i pozzi avevano incontrato costanti problemi di instabilità che richiesero di correggere assialità e diametro dei buchi man mano che perforavano, in pratica incurvavandoli via via che trivellavano. Poi aumentarono la densità dei fanghi, ma non servì a dare stabilità alle perforazioni e la “contaminazione da carbonato” aggiungeva complicazioni. Dopo otto anni, nel 2006, tornarono al cloruro di potassio. Fu risolta la contaminazione da carbonato ma non l’instabilità della perforazione e la contaminazione con elevato grado di solidi dispersi dovuta a fluidi con barite o ematite e altri solidi come bentonite, che dovevano assicurare maggior viscosità, e che Shulmberger che in Val D’Agri ha lavorato, definisce causa di maggior usura delle attrezzature che pompano i fanghi nei pozzi, dunque da rimuovere con altre sostanze aggressive. L’uso di questi fluidi comportò la produzione di enormi volumi di rifiuti da ogni pozzo, tra cui “spent drilling fluid”.

Abbattere i costi del significante flusso di rifiuti. L’Oil&gas Journal definisce gli spent drilling fluid come il più significante flusso di rifiuti nel settore petrolifero, “un serio e costoso problema di costi di smaltimento per gli operatori offshore che devono trasportarli a terra per smaltirli”. E in Val D’Agri c’è ampia letteratura nel tempo di problemi di “flussi di rifiuti” da smaltire. Dove e come si smaltisce lo ha portato alla luce anche la DNA in questi giorni. E non è in mare il campo Val D’Agri. Al secondo pozzo di Monte Enoc 10 or B per esempio, scrissero Eni ed Halliburton che le tubazioni nei pozzi iniziarono a intasarsi e la conseguente perdita di circolazione di fluidi andò avanti finché non venne tirata l’attrezzatura fuori dal pozzo. Partì un terzo pozzo, ma questi problemi indussero a usare fanghi aggiungendo per ogni metro cubo d’acqua settantasette chili d’una mistura con dentro varie sostanze tra cui inibitori polimerici, usati proprio quando si ha a che fare con formazioni argillose reattive. I polimeri dovevano migliorare la mobilità delle acque di iniezione. Ma avevano dei contro. Alcuni sono tossici e cancerogeni e non dovrebbero entrare a contatto con corpi idrici che in Val D’Agri esistono eccome.

Una questione chiamata salute. E invece a Costa Molina 2 venivano reiniettate sostanze pericolose per fare profitto facile, poca preoccupazione per corpi idrici, e anche nella mistura utilizzata per perforare in Val D’Agri ci sono sostanze che comportano problemi per esseri viventi e ambiente. Ma fa niente anche lì. Certo tra trivellazioni, reiniezioni, e rifiuti, il ciclo del petrolio lucano vede l’impatto sulle matrici ambientali del COVA a Viggiano, della discarica Ecobas e di Tecnoparco a Pisticci, della discarica Semataf a Guardia Perticara di fronte i pozzi di Corleto praticamente, e di tutto ciò che vi rientra, traffico veicolare compreso (migliaia di autobotti). Il loro impatto sulla salute attraverso la diffusione degli inquinanti nelle matrici ambientali interessa al NOE che in questi giorni ha acquisito migliaia di cartelle cliniche. Il dottor Agostino Di Cialula, Medicina interna dell’ospedale di Bisceglie che con l’Isde si occupa del rapporto tra inquinanti immessi in ambiente e salute, ha ricordato che certamente la Basilicata ha un elevato interesse epidemiologico anche per via dell’alta densità di trivellazione. E che l’esame di numerosi dati Istat desta sospetti.

La tutela dell’infanzia. A Corleto Perticara dove c’è Tempa Rossa e sono stati perforati sei degli otto pozzi spiega Di Ciaula, nel 2014 il tasso di mortalità è risultato il 73% più elevato di quello regionale, a sua volta più alto di quello delle regioni meridionali. Tra 2011 e 2014, continua Di Ciaula, a Corleto il tasso di mortalità è aumentato del 23% rispetto al 2% regionale. Ricorda anche che l’Health for all, un database Istat, riporta che tra 2006 e 2013 in Basilicata il tasso di mortalità per malattie dell’apparato respiratorio è aumentato del 29% rispetto al 14% nazionale. Nel 2014 è inoltre aumentato il tasso di dimissioni per tumori maligni rispetto al dato nazionale, e “in età pediatrica – ricorda ancora – le criticità maggiori si notano per il sesso maschile, nel quale il tasso di dimissioni per tumori è più alto del 33% rispetto alle regioni meridionali, e del 42% rispetto ai tassi nazionali. In provincia di Potenza in particolare, nel maschi tra 0 e 14 anni il tasso di ospedalizzazione per tumore maligno è aumentato del 48% tra 2011 e 2014. Il tasso di dimissioni per chemioterapia nella fascia di età 0-14 anni è più alto rispetto a quello nazionale”.