“Mi auguro che l’Università degli studi di Padova possa in futuro insegnarti l’educazione”. È quanto si è sentito dire Alberto Diantini dell’Università di Padova al telefono da un sindaco per accedere alle informazioni ambientali durante la ricerca “Petrolio e biodiversità in Val D’Agri” (2016). Eppure il ricercatore affrontava un tema di interesse per sindaci e popolazione.
Valdagrizzare una terra. Di politiche che lascino i combustibili fossili nel sottosuolo, ricorda Diantini, c’è un solo esperimento fatto in una parte del Parco Nazionale Yasuní in Ecuador. Azione che ha portato società civile e comunità scientifica ecuadoriana a coniare il neologismo “yasunizzazione” per indicare l’iniziativa della società civile atta al mantenimento del petrolio nel sottosuolo per contribuire alla realizzazione di obiettivi che vanno dalla protezione del clima globale al coinvolgimento della comunità, dalla giustizia climatica ai diritti umani e la conservazione della biodiversità. In Basilicata si va verso la fossilizzazione ambientale, viste le numerose concessioni in atto, sapendo che l’estrazione di petrolio e gas, come riporta lo stesso Diantini, è tra le “attività che possono determinare impatti negativi sul mantenimento della biodiversità, con effetti non solamente locali, ma anche più ampi”. E per più ampi bisogna pensare alle aree interessate agli sversamenti di petrolio dove è stato accertato un aumento degli aborti spontanei 2,5 volte superiore rispetto ad aree non impattate, dei casi di melanomi, tumori allo stomaco, al retto e ai reni per gli uomini, alla cervice e ai linfonodi per le donne, delle leucemie nei bambini. In questa piccola regione del sud Italia alla quale negli ultimi anni di neologismi ne sono stati appiccicati davvero troppi, da Kuwait del Mezzogiorno a Libia o Texas d’Italia, Basilicata o Lucania Saudita a seconda i casi, la cosa certa è che rappresenta la prima zona al mondo dove l’industria petrolifera ha sperimentato la perforazione orizzontale su terra ferma. Più che di yasunizzazione si dovrebbe iniziare a parlare di “valdagrizzazione”.
Basilicata loop. I problemi dell’industria petrolifera sono diversi. Le acque di strato o produzione costituite da idrocarburi e non, additivi chimici, sali e metalli pesanti, scrive Diantini, sono la quantità più abbondante di reflui in fase di esercizio del pozzo e richiedono delicate operazioni di smaltimento. La reiniezione in idonee unità geologiche profonde, in genere pozzi chiusi in quanto sterili o esausti, è lo smaltimento più adottato. Ogni progetto di reiniezione è obbligato a individuare “una roccia serbatoio adeguata per volumi disponibili alla raccolta delle acque e per caratteristiche petrofisiche, la presenza di un’adeguata copertura impermeabile che garantisca l’isolamento della roccia serbatoio dagli acquiferi superiori e dalla superficie, la compatibilità tra le caratteristiche fisico-chimiche dei reflui da smaltire e la roccia in posto e i fluidi contenuti, la definizione degli impianti superficiali atti alla raccolta, al trattamento e al trasporto a destinazione del refluo”. Prima di essere inviate al pozzo reiniettore stando a Eni ci sono trattamenti di separazione del gas associato, disoleazione, degasazione e stoccaggio, e solo dopo si ha la filtrazione mediante appositi filtri per la reiniezione mediante pompaggio ad alta pressione. L’anno scorso mentre avveniva questo pompaggio l’antimafia raccontava per la presenza di inquinanti nel pozzo reiniettore Costa Molina 2 erano finiti ben 854 milioni di chili di acque reflue in “totale difformità” rispetto all’autorizzazione (Basilicata Spa raccontata su Terre di Frontiera). Vent’anni fa un sostituto procuratore aveva già riferito sullo smaltimento irregolare di acque di strato in pozzi Agip, di quelle autorizzazioni regionali che non tenevano in nessun conto della legge secondo cui sostanze con tracce di idrocarburi non avrebbero potute essere reiniettate in unità geologiche profonde, e chiarita pure “l’inazione totale” degli organi preposti con sistema di smaltimento che “non aveva subito alcun tipo di controllo”.
Gli impatti sull’ambiente idrico si conoscono. La Val D’Agri tra pozzi e condotte presenta una enorme rete di raccolta (clicca foto1), e si sa che c’è una rete idrica sotterranea e superficiale molto sviluppata, che durante la perforazione delle rocce fino al raggiungimento delle formazioni produttive l’intercettazione delle falde acquifere “può esporre i corpi idrici al rischio di contaminazione da parte dei fluidi di perforazione impiegati per la lubrificazione degli elementi perforanti e per l’asportazione dei detriti di perforazione”, che gli impatti maggiori sulla componente “vegetazione, fauna, ecosistemi” sono riconducibili alla dispersione nell’ambiente idrico di idrocarburi e sostanze chimiche varie. Inoltre la stessa Eni ricorda la possibile contaminazione delle falde acquifere per perdita dei fluidi di circolazione. E ovviamente in fase di perforazione c’è possibile contaminazione dell’ambiente idrico per un errato smaltimento delle acque di strato e dei fanghi di perforazione. Per minimizzare gli impatti dovuti alla contaminazione delle falde acquifere da parte dei fluidi di circolazione durante la perforazione si dovrebbe operare un’adeguata incamiciatura delle pareti del foro, impiegare fanghi ad adeguate pressioni e con additivi chimici caratterizzati dal minimo grado di tossicità. In Val D’Agri, come raccontato in storie di pozzi (1, 2, 3, ndr), hanno usato forti pressioni, acidificato fratture e formazioni rocciose, usato solventi come toulene e altri per ripulire i pozzi. Sanno le company i problemi di accumuli di asfalteni, corrosione sulle pareti di buchi, condotte, incamiciature, collassi di pozzi documentati, fuoriuscita incontrollata di fluidi di giacimento o blow-out, invasione nei pozzi produttivi dell’acqua iniettata per mantenere la pressione di giacimento o water breakthrough, come quello nel 2006 dovuto a forte spinta dell’acquifero. Nello studio Diantini fornisce poi un’informazione importante viste le attuali questioni relative all’inquinamento della falda sotto il Centro Oli Val D’Agri (COVA, ndr). Tra il Comune di Marsico Nuovo e la diga del lago Pietra del Pertusillo la falda acquifera si trova a breve profondità dalla superficie, circa 50-60 metri sotto del piano campagna. Con una falda collegata quante probabilità ha lo sversamento sotto il COVA di finire nel lago?
Una visione d’insieme. Per un esame approfondito dei progetti di estrazione petrolifera Diantini utilizza le sue Linee Guida Petrolio Impatti e Mitigazionie e la cheklist introdotta dalla Commissione Europea nel 2001. Una tabella dei rapporti spaziali fra pozzi ed elementi sensibili come edifici, zone Zps, Sic/Zsc, parchi, fiumi e laghi chiarisce la situazione (clicca la tabella, ndr). Tredici pozzi ricadono tra le zone a distanza minima da elementi sensibili, tra essi, in relazione alla vicinanza ad aree sorgive dei corsi d’acqua, torrenti, fiumare e bacini artificiali (clicca foto2), troviamo Cerro Falcone 1 a 200 metri dalla sorgente della fiumara La Terra, Monte Alpi Est 1 a 290 metri dal torrente Rifreddo, Monte Alpi 4X a 360 metri da un affluente del lago Pertusillo, e non è l’unico perché gli fanno compagnia i pozzi Monte Alpi 6/7/8 a 390 metri da un altro affluente del Pertusillo. A 380 metri da Monte Enoc 1 ci sta una sorgente affluente nel torrente Casale, a 450 metri da Costa Molina 2 il torrente Rifreddo, a 580 metri dal lago Piana del lago i pozzi Agri 1, Cerro Falcone 6 e 9, e a 580 metri dal torrente Rifreddo Costa Molina Ovest 1. A 660 metri dal torrente Alli ci stanno Monte Enoc 2 e 9, e Monte Enoc NW, a 740 dalla sorgente del fiume Piesco Cerro Falcone 2. Ci sono poi otto pozzi a distanza medio-bassa, due medio-alta e nessuno a distanza massima. Risultano inoltre quattordici pozzi autorizzati alla perforazione dal ’96 al 2009 dentro il Parco Nazionale dell’Appennino Lucano Val D’Agri Lagonegrese, di cui dodici in produzione. Una mappa che mostra una situazione chiara. Il 55% dei pozzi analizzati (22 su 40, ndr) ha una distanza minima da elementi sensibili, e se consideriamo un altro 30,8% che ricade in una distanza medio-bassa è semplice capire quanto in Basilicata l’industria petrolifera operi a stretto contatto anche con beni primari come l’acqua.
Gli impatti previsti. Tra le prescrizioni inserite nel ’99 per le concessioni Volturino, Caldarosa, e Grumento Nova c’erano apparecchiature di sicurezza sulla testa pozzo per evitare blow out, garantire la tenuta idraulica e la chiusura del pozzo, contrastare la pressione esercitata dai fluidi di strato nel caso di blow out. E si scrive che “in virtù dell’importanza socio-economica e di salute pubblica legata alla tutela delle falde e del Bacino idropotabile del Pertusillo”, e nel caso di condotte collocate su substrati permeabili e in presenza di falde freatiche e corpi idrici, tra le misure di sicurezza per prevenire il rischio di sversamenti bisognava inserire nelle condotte valvole a chiusura automatica ogni 1.000 metri. “Dato l’impatto potenzialmente catastrofico che si può verificare in caso di blow out e contaminazione delle riserve idropotabili – si scrive – le procedure di emergenza da adottare nel caso di pozzi in presenza di falde e in vicinanza di corpi idrici sono di massimo livello anche se le condizioni di pressione e temperatura del giacimento sono normali”. Ma non è dato sapere se ciò è stato applicato. Come non è dato sapere altro. Certo nei SIA Caldarosa e S. Elia-Cerro Falcone 7 non vengono discusse molte cose, tra cui i possibili impatti sulle componenti biotiche e sull’approviggionamento idrico a scopo potabile o irriguo dovuti alla contaminazione delle falde a opera dei fluidi di circolazione durante la fase di perforazione.
Per la gestione dei rifiuti dal SIA Caldarosa si capisce che solidi e liquidi vengono suddivisi in rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi, ai quali è poi attribuito un Codice Europeo dei Rifiuti (CER) che ne specifica la pericolosità. La suddivisione è compiuta però solo per le attività di preparazione della postazione, allestimento a produzione e posa delle condotte. Non sono descritti i rifiuti che potrebbero essere prodotti alle fasi di produzione e decommissioning. Per le tipologie di rifiuti cui vengono applicati i codici CER, continua Diantini, non viene fornita una stima della quantità prodotta nelle diverse fasi. Le diverse tipologie di rifiuti vengono ulteriormente accorpate in categorie più generiche e per ciascuna categoria viene fornita una stima della quantità di rifiuti prodotta giornalmente. Sarebbe stato opportuno “definire una stima della quantità di rifiuti generati giornalmente per ciascuna tipologia definita dai codici CER, in modo da descrivere un quadro più preciso delle tipologie di rifiuti e della loro pericolosità in relazione ai quantitativi prodotti. Oltre a ciò, non sono ben chiare alcune denominazioni delle categorie di rifiuti per i quali viene fornita una stima della quantità”. Si fa l’esempio dei rifiuti prodotti da operazioni di perforazione dove si “accenna” solo alla produzione di determinate quantità di fanghi e detriti perforati senza specificare a quali tipologie appartengano. Per altre categorie come acque di produzione, di lavaggio, oli esausti e sostanze chimiche utilizzate nelle operazioni di manutenzione, non vengono fornite stime. E non viene discussa la modalità di smaltimento di acque e sabbie di produzione associate al greggio estratto, e delle acque di test di collaudo delle condotte.
Confusione? Nei due SIA visionati per la quantità di acque meteoriche da smaltire c’è una stima solamente per la fase di perforazione, mentre per la fase di esercizio viene riportato che l’acqua piovana che si accumulerà nella cantina della testa di pozzo verrà prelevata e smaltita in idonei impianti, ma non ne viene fornita una stima, e “paradossalmente non viene considerata un rifiuto”. Per la fase di esercizio l’unica tipologia di rifiuto identificata è l’acqua di produzione, per la quale non viene fornita stima alcuna. E se dall’analisi bibliografica emerge che le acque di strato verrebbero separate dall’olio all’interno del COVA per essere successivamente trattate e smaltite mediante pozzi di reiniezione (il SIA non fornisce alcun dettaglio, ndr), nei due SIA analizzati viene riferito che l’acqua di strato viene separata dai fluidi estratti a livello della testa di pozzo e poi inviata al COVA dove verrà trattata e smaltita attraverso il pozzo reiniettore, senza specificare se l’acqua venga trasportata mediante autobotte o condotta. Nei SIA, scrive Diantini, viene riferito pure che all’interno del COVA viene compiuta la separazione delle acque dal greggio proveniente dai pozzi perciò non è chiaro perché le acque di strato dovrebbero essere separate già a livello dei pozzi previsti dal progetto e non negli impianti dedicati del COVA. Non viene comunque realizzata alcuna “minima descrizione delle strutture che permetterebbero la separazione delle acque alla testa dei pozzi”. Insomma in merito alla gestione dei rifiuti la situazione, dice Diantini, è molto confusa. Ma almeno di questo in Italia l’antimafia se ne è accorta.
Vietato informare. Oltre gli aspetti poco chiari relativi al rapporto dell’industria petrolifera con l’ecosistema, c’è poi la chicca. “L’Ufficio Compatibilità Ambientale della Regione Basilicata – scrive Diantini –, ovvero l’ufficio incaricato di seguire le istruttorie relative alle Valutazioni di Impatto Ambientale di competenza regionale, ha fornito informazioni poco precise sulla collocazione dei SIA e non ha mai fornito la documentazione”. I Comuni contattati invece, hanno risposto di non essere in possesso dei SIA richiesti, tranne un comune, il cui sindaco riporta Diantini, telefonicamente “negò con arroganza” la possibilità di visionare il SIA in quanto il richiedente non avrebbe avuto “sufficienti qualifiche per poter ottenere un documento dai contenuti così importanti”. Diantini ricorda che quando si era successivamente recato all’Ufficio Protocollo di quel Comune per consegnare una lettera indirizzata al sindaco menzionando la normativa violata, ricevette il giorno seguente una telefonata del sindaco che in modo ironico si complimentò per la lettera dichiarando “mi auguro che l’Università degli studi di Padova possa in futuro insegnarti l’educazione”. “Negando la visione del SIA – scrive Diantini – il sindaco ha violato il diritto d’accesso all’informazione ambientale sancito dalla Convenzione di Aarhus del 1998, nel sistema Nazioni Unite, dalle direttive europee 2003/4/ CE e 2003/35/ CE e dal Decreto Legislativo 19 agosto 2005 n. 195. L’articolo 3 comma 1 di tale decreto legislativo, difatti recita espressamente: l’autorità pubblica rende disponibile […] l’informazione ambientale detenuta a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dichiarare il proprio interesse”. Per visionare i SIA scrive Diantini, e accedere ai pozzi per raccogliere le informazioni necessarie furono avanzate molteplici richieste scritte all’Eni, accompagnate da numerose telefonate. L’unica risposta ricevuta riguardò la comunicazione della “non disponibilità di tempo da dedicare da parte del personale Eni agli studi che il richiedente stava realizzando”.
Qui lo studio di Alberto Diantini Petrolio e biodiversità in Val D’Agri, ne consigliamo la lettura a politici e funzionari almeno per buona educazione, in fondo si tratta delle prime linee guida per la valutazione di impatto ambientale di attività petrolifere onshore.