La risorsa lucana sfruttata da Banca Europea, corporation e politici grazie a “perforazione orizzontale” e veleni reintrodotti illecitamente nel territorio

mappa dei giacimenti in val d'agri, fonte: Problems of deep drilling in the Apennines area - Eni experience Roberto Poloni Eni E&P.
mappa dei giacimenti in val d’agri, fonte: Problems of deep drilling in the Apennines area – Eni experience
Roberto Poloni Eni E&P.

La Basilicata è una terra di mezzo. Sta da sempre in mezzo a terre di mafia ma non se ne parla di dire che c’è. Esiste. Tanto che Don Cozzi, vice di Libera, per parlare di mafia intitolò un libro “Quando la mafia non esiste”. Per succhiare il suo petrolio si è messa però pure in mezzo a debiti contratti da multinazionali con l’elite bancaria, ma non se ne parla nemmeno di raccontare gli interessi internazionali in gioco. Da un lato, tra le montagne lucane, c’è un luogo dove il petrolio sgorga persino naturalmente, dall’altro, resta la regione dove per compensare gli “impatti dell’industria petrolifera e garantire adeguate condizioni di vita” sono state implementate misure per “controllare/migliorare” condizioni ambientali, politiche, velocizzare l’innovazione tecnologica, lo sviluppo e la creazione di imprese, e migliorare l’informazione alla popolazione. È il paradiso industriale pubblicizzato dalla letteratura ufficiale dei petrolieri e dalla politica locale e nazionale pro petrolieri, in una regione da cui in realtà si scappa sempre più. Sembra il mondo perfetto d’uno spot ENI, su cui da ieri gravano le parole del Procuratore Nazionale Antimafia Franco Roberti.

Malavita d’impresa. Il petrolio ha avvelenato il territorio lucano, ma è il modo in cui l’ha fatto a essere squallido. “Siamo di fronte – ha riferito Roberti – a un’organizzazione criminale di stampo mafioso organizzata su base imprenditoriale”. Dentro c’era finito mesi prima anche il presidente di Confindustria lucana Michele Somma, da parecchio con cariche in Tecnoparco Valbasento spa, e socio della Finpar srl che detiene anche una quota dell’impianto al centro dell’inchiesta, dove sono finiti centinaia di milioni di chili di rifiuti petroliferi. Per la Procura la posizione di Tecnoparco e della sua “proprietà” è chiara. La definisce un “contributo tecnico e operativo nel conseguimento del programma illecito prefigurato dal management ENI” per smaltire rifiuti petroliferi. La proprietà oltre Somma vede la stessa Regione Basilicata attraverso l’ampia partecipazione del Consorzio Industriale di Matera, e la Veos srl con sede a Potenza che nonostante i suoi diecimila euro di capitale sociale nell’oggetto sociale prevede “ricerca, prospezione, sviluppo, produzione e commercializzazione di prodotti minerali liquidi e gassosi in Italia e all’estero”, e il cui 60% è in mano a Massimo Orlandi, ex amministratore delegato di Sorgenia che lasciava le sua partecipazione proprietaria a Tecnoparco tre mesi prima che l’antimafia entrasse a febbraio 2014 dentro l’impianto per l’indagine su smaltimento illecito. Il bilancio 2013 di Tecnoparco racconta che il 27 novembre 2013 Sorgenia aveva ceduto la partecipazione in Tecnoparco alla Finpar di Somma e contemporaneamente la Finpar la “cedeva alla sua controllata Veos”, che iniziava l’attività ad aprile, appena in tempo per approvare il 9 giugno il bilancio 2013 di Tecnoparco, ma che s’era iscritta nel registro delle imprese il giorno prima che Finpar le girasse la quota acquisita da Sorgenia.

Banche, fondi UE, e “petrolio locale”. Del resto Somma è uno che lo promuove da sempre il petrolio lucano, uno a cui nel periodo di poco precedente la gara d’appalto Total a Corleto non dispiaceva cenare nel più rinomato ristorante di Piacenza assieme a Vito De Filippo e altri imprenditori addentrati nel ciclo del petrolio per “darsi conferma” di cose “a breve scadenza”, per la procura appunto l’appalto Total. Intercettato in questa nuova inchiesta De Filippo raccomandava la sua assistente a Pasquale Criscuolo, altro addentrato nel mondo del petrolio coinvolto nel traffico illecito di rifiuti con la sua Criscuolo Eco Petrol, perché in grado di risolvere i problemi dell’imprenditore a Roma. E mentre per l’antimafia il business dell’avvelenamento della Basilicata è costruito “su base imprenditoriale”, per Il sole24ore, bibbia delle imprese, diventa a rischio l’investimento di 1,6 miliardi di euro Tempa Rossa. Da un lato una cieca politica energetica alle velenose distorsioni nei territori, dall’altro debiti contratti per tirar su petrolio e produrre pochi posti di lavoro. E lo sa anche Somma consigliere pure in quella Star Service che con i fondi per lo sviluppo ha avuto a che fare e di cui la Corte dei Conti ribadì il fallimento. Nel 2000 Eni per lo sviluppo dei campi petroliferi di Monte Alpi tra le montagne dell’appennino meridionale in Val D’Agri prese duecento milioni di euro dall’European Investment Bank (EIB, ndr), via Enterprise Oil Italiana spa, una controllata Agip. E includevano anche quel COVA oggi al centro dei sequestri con le sue vasche, e un oleodotto. Soldi concessi perché la Basilicata era, e resta nonostante fiumi di fondi UE incamerati, area “obiettivo 1”, regione povera e sottosviluppata, e perciò usufruisce di contributi europei per la promozione all’uso del “petrolio locale”.

Debiti e veleni. Nel 2003 l’EIB affrontando il “caso studio Val D’Agri-Italia” ricordò d’aver sborsato parecchi fondi nei passati sei anni, principalmente nel “settore petrolifero” per l’espansione del sistema energetico italiano. “Il primo prestito per sviluppare il petrolio in Val D’Agri – scrisse – è stato dato nel 1996, e fin’ora il totale per il progetto è di 607 milioni di euro”. Si sa che l’EIB ha le idee chiare da un pezzo sulla Val D’Agri se concede in realtà prestiti a ENI dal ’94 per lo sviluppo di quei depositi, e soprattutto se stima il totale dell’investimento in un miliardo e mezzo di euro. Nel Gruppo EIB converge il Fondo Europeo per gli Investimenti con un capitale di 4,5 miliardi di euro, l’80% del quale in mano alla stessa EIB e agli Stati della UE, il 20 a banche sparse in Europa, a maggioranza tedesche e francesi che sarebbe interessante approfondire. Tra le italiane Intesa SanPaolo che partecipa con un finanziamento di più di 2 miliardi di dollari assieme a ENI alla costruzione del gasdotto Blue Stream, e al Nord Stream come capofila di un finanziamento di 3,7 miliardi di euro. E c’è la Cassa Depositi e Prestiti spa, fondo pubblico che raccoglie i risparmi postali degli italiani controllato all’80% dal Ministero dell’Economia che l’anno scorso ha usato il Fondo Strategico Italiano per ricomprare il 12,5% della Saipem di Eni. Eni otteneva il rimborso di 6,1 miliardi di euro e un guadagno di 461 milioni, oggi la Cassa si ritrova con un titolo che vale oltre l’80% in meno. Alla fine di settembre 2008, quando erano già stati estratti 220 milioni di barili di petrolio, la metà di quelli totali stimati in Basilicata dal Consolato Usa, iniziò a lievitare la produzione di rifiuti petroliferi, ma nessuna Banca Europea e nessuna UE se ne accorse nonostante Eni riportava nelle sue politiche l’uso di tecnologia in grado di abbattere la produzione dei reflui. In questi giorni l’antimafia ci ha illuminato “sull’indotto delittuoso” attorno ai rifiuti del petrolio. “Per risparmiare decine di milioni di euro – ha ribadito Roberti –, hanno inquinato un territorio attraverso vecchi cavilli truffaldini come il cambio del codice europeo rifiuti” con la compiacenza di “chi dovrebbe controllare e non controlla”. I rifiuti del petrolio lucano li hanno smaltiti spendendo meno, e non come dovrebbe essere smaltito il materiale prodotto dall’attività estrattiva. “Materiale pericoloso, materiale velenoso – ha confermato il procuratore –, che è stato invece reintrodotto nel territorio”.

Una buona scusa chiamata ignoranza. Quindi sull’impatto delle attività estrattive e dei processi di trattamento del petrolio non si discute più, ma sempre la letteratura ufficiale ci dice che dalle company sono state prese misure per limitare danni e verificare le performance ambientali. E quello delle performance ambientali è l’altro paradiso perfetto spacciato dai colossi dell’Oil, performance tutte da definire se nel 2014 la company Petromanas Energy, su fonte ENI, in un documento scriveva “siamo un pò preoccupati dai ripetuti problemi di perforazione sperimentati da Petromanas e Shell, nonostante le lezioni apprese dal primo pozzo e dall’esperienza Shell in Val D’Agri e Tempa Rossa”. ENI aveva iniziato l’attività in Basilicata nel ’96, con Monte Alpi, il COVA arrivò nel 2001. E in Val D’Agri Eni e Shell avevano incontrato “a lungo” gli stessi problemi di perforazione, tra cui perdite di fanghi di circolazione nella sezione carbonatica e instabilità dei pozzi. “Eni – riporta Petromanas – ha cercato di risolvere l’instabilità aumentando fanghi leggeri, ma un loro eccesso rischia di fratturare le argille e causare perdite di circolazione”. Così per prevenire il collasso dei pozzi Petromanas iniziò a usare fanghi a base d’acqua e additivi. Com’era l’ambiente prima che queste siringhe di misture di contaminanti venissero iniettate nella terra riemergendo ogni tanto da qualche altra parte, non lo sapremo mai. Impossibile comparare i dati di oggi sulle matrici ambientali a quelli antecedenti l’estrazione. Non ci sono. Lucani, pugliesi, calabresi che usufruiscono dell’acqua che subisce in Basilicata le alterazioni dovute all’industria petrolifera, possono scordarsi una piena valutazione dei cambiamenti nel tempo e delle relazioni di causa-effetto. E possono scordarsi la reale valutazione del danno economico. Chi resta in Basilicata i conti con l’alterazione dell’ecosistema li dovrà invece fare. E sul bilancio sanitario anche.

Una regione povera tra petrolieri e “perforazione orizzontale”. Sarà importato a qualcuno conoscere la situazione ambientale pre Era lucana del petrolio? Pare di no nella perenne povera Basilicata sempre energeticamente buona da sfruttare. Nel 2008 anche il consolato Usa a Napoli, interessato alla crescita del settore energetico nel Sud Italia, alla Basilicata aveva dedicato un paragrafo dal significativo titolo “La più grande riserva di petrolio a terra d’Europa”. Tra le scoperte di grossi depositi di petrolio e gas quella in Val D’Agri, nella regione più povera di Italia, ricordava il Consolato, era “di importanza strategica per l’Europa”. Di quel petrolio scoperto nella regione settant’anni prima scriveva anche altro il Consolato Usa. Soprattutto che era diventato accessibile solo in anni recenti “grazie a nuove tecnologie di perforazione orizzontale” e a pozzi incurvati che permisero di bypassare le difficoltà provocate dalla dura roccia. “La zona della Val d’Agri – si riporta – dovrebbe avere riserve di almeno 420 milioni di barili, e forse molti di più stando a diverse fonti, anche se non è chiaro quanto ne sarà realmente recuperato”. La “più grande riserva di petrolio a terra d’Europa” scriveva il Consolato, è sfruttata allo stesso modo dalle parastatali Eni e Agip, e da ExxonMobil, Shell, Total e Enterprise. Il Consolato ricordò le grosse aspettative del governo nazionale e locale per lo sfruttamento di idrocarburi, che con un “impatto minimo sull’ambiente” avrebbe portato sviluppo economico e molti posti di lavoro in una regione tanto impoverita.

Lo strambo giro che fa l’interesse nazionale. In Basilicata però, non si deve dimenticare che è dal 1964 che s’estrae petrolio tra Pisticci e Ferrandina. Nessuno se ne accorto in Italia, ma si tratta dell’area sud della Basilicata per cui arrivavano fondi UE del sottosviluppo. Area che ha visto già acclarati gli effetti collaterali dell’industria petrolifera dal ’96 con contaminazioni da idrocarburi dovute a traffici e smaltimenti illeciti di rifiuti anche petroliferi nella discarica del Gruppo Iula a pochi metri da Tecnoparco, e finito anche in questa nuova indagine. Ora c’è il presente con cui fare i conti, con quanto emerge su Tecnoparco. Osservando la Basilicata di oggi, ancora Obiettivo 1 d’Europa, diventa beffarda la riflessione sul petrolio della Val D’Agri come faccenda di “interesse nazionale” (in realtà il maggior introito va alle Corporation, ndr). In fondo il 5 novembre Federica Guidi, a capo del Ministero dello sviluppo economico che regolamenta la politica mineraria nazionale con il rilascio delle autorizzazioni alle concessioni petrolifere come Tempa Rossa, rassicura il suo compagno Gianluca Gemelli per il quale è fondamentale entrare con la Its srl e la Ponterosso Engeneering nell’affare, dicendogli che se fosse stata d’accordo il Ministro per i Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi, quella che ha firmato l’emendamento, sarebbero riusciti a mettere dentro al Senato l’emendamento. Poco dopo Gemelli informa i dirigenti della Total che devono concedergli i subappalti, e all’ingegner Cobianchi dice di chiamarlo per “una buona notizia”. Gli ricorda che mesi prima l’emendamento era stato bocciato ma che finalmente al senato lo avrebbero inserito perché ci sta “l’accordo con Boschi e compagni”. Ma pare dice, che “siano d’accordo tutti perché la Boschi ha accettato di inserirlo”. E chiude ridendo che “è tutto sbloccato!”. E sì, per Cobianchi pure Marcello Pittella “era favorevole alle estrazioni”, e ridendo Gemelli spiegava al telefono che Pittella “tramite il fratello che è al Parlamento europeo ha dei contatti fortissimi con Renzi e quindi riesce a bloccare cose che altri non ci arriverebbero”.

I veleni del COVA e di Costa Molina2. Certo è paradossale tutto ciò. Del resto nella strategica Basilicata per la UE il costo delle benzina è tra i più alti d’Europa, e la card-carburanti non è considerabile nemmeno un’elemosina. E ancor più paradossale la faccenda petrolio lucano osservando i dati della Camera di Commercio di Taranto pubblicati nel 2014. Nella città pugliese dove il petrolio lucano viene raffinato e vogliono aumentare le emissioni senza un perché, nel 2013 tra le pochissime produzioni che hanno visto incrementare l’export quella dei prodotti petroliferi è al primo posto, con lo stratosferico incremento del 1.605%. Messa così la cosa, è una beffa. Avveleniamo regioni per prelevare una risorsa considerata nazionale i cui maggiori profitti sono trattenuti per lo più da Corporation estere, e alla fine lo esportiamo? Al territorio lo aveva già spiegato uno studio dell’IMAA-CNR dell’aprile 2014 quello che si lascia. Studio che riprese il Piano di Monitoraggio Ambientale firmato nel 2011 da Eni e Arpab, e la caratterizzazione degli impatti delle attività estrattive sulle matrici ambientali in un’area di 13 chilometri per 8 intorno al Centro Oli Val D’Agri. Dati che permisero considerazioni sulla qualità dell’aria e delle acque di reiniezione. “In particolare – si scrive – nella struttura delle attività dell’Osservatorio Ambientale Val D’agri (2013), è stata fatta un’analisi preliminare dei dati riferiti alla qualità dell’aria tra il 28 febbraio e il 13 giugno. Questa analisi ha evidenziato elevate concentrazioni di tutti gli inquinanti, nello specifico di composti organici volatili (C6H6, NOx, toulene, ethylbenzene), probabilmente originati dalle attività di trattamento di olio/gas”. Spiegarono poi che la concentrazione di idrogeno solforato era risultata elevata rispetto ai valori dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, e la soglia dell’ozono aveva ecceduto di molte volte quella consentita. Sulla qualità dell’acqua di falda l’Arpab non aveva segnalato problemi significativi nel Comune di Montemurro, però si scrisse pure che era stato chiuso un progetto portato avanti nel 2010, 2011, 2012, e nei primi sei mesi del 2013 per “valutare la qualità delle acque di reiniezione del pozzo Costa Molina 2”, e che “i risultati di queste campagne di monitoraggio, parzialmente riportati da Arpab (2013), avevano evidenziato che alcuni analiti come ferro e idrocarburi totali eccedevano i limiti di legge”. Si tratta di quel Ferro e idrocarburi riscontrati anche altrove in Basilicata. Non scordiamolo.

Un pensiero su “Petrolio Spa”
  1. spero che il quadro di Roberti si allarghi alle tue considerazioni

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