Idrogeno solforato in quantità maggiori di quanto ci si aspetta, problemi di corrosione, disinteresse per l’ambiente e violazione della Convezione di Arhus. È il petrolio dei primati.

Mentre erano in corso le pulizie raccontate in Storie di pozzi#2, Halliburton Shell e Eni in “L’uso della tecnologia multilaterale in un’area ambientalmente sensibile” del 2007, ricordavano che la trivellazione multilaterale era arrivata a Cerro Falcone 3X or A nel 2000 (successivamente anche a Cerro Falcone 4 Or, ndr). Tre anni dopo, nel 2003, fu usata per Agri 1, dove i test scrivono, avevano mostrato che assieme a quel petrolio venivano su 100 mila parti per milione del corrosivo e pericoloso idrogeno solforato, anziché le 40 mila che s’aspettavano, e le condotte metalliche fatte di cromo e molibdeno si corrodevano (uno studio ricorda che l’industria del petrolio e del gas spende 1.372 miliardi di dollari l’anno per problemi di corrosione, ndr). Eni e Halliburton formarono perciò un team per valutare la soluzione e decisero di uscire da una sezione del buco perforandone lateralmente un secondo, con cinque allacci per far accedere le condotte a tutti i buchi perforati, incluso l’esistente Agri 1 or A. Gli allacci erano in Incoloy 925, metallo composto a maggioranza da nickel cromo e ferro, e contenente: molibdeno, rame, titanio, alluminio, manganese, silicio, niobio, carbonio e solfuro. Agri 1 era stato perforato sino a 4.010 metri di profondità e per problemi dicono, abbandonato e tappato con cemento a 3.170 metri, in modo da isolarlo idraulicamente. La traiettoria delle condotte di Agri 1 si scrive, avrebbe permesso di drenare una sezione del giacimento raggiungendo un ampia frattura produttiva. Nella seconda fase fu infatti perforato un buco laterale “attraverso un’area critica del pozzo, dove la formazione aveva una storia di instabilità”. Nonostante area soggetta a instabilità, guardando l’immagine della sezione geologica allegata allo studio, Agri 1 attraversa la linea di contatto acqua-petrolio e diverse fratture (foto1). C’è stato come nel 2006 un water breakthroug? E viste le fratture e un acquifero che spinge, quali vie possono prendere i fluidi?

Il lifting petrolifero. Come per Agri 1 or A, nato per investigare la zona a sudovest del giacimento e aumentare la produzione uscendo a 3.165 metri di profondità dal buco principale Agri 1 per perforarlo lateralmente sino a 5.673 metri, anche per Agri 1 or B si trattò di perforare lateralmente Agri 1. A guardare la sezione geologica questa volta si uscì dal buco principale prima del contatto tra acquifero e petrolio, per attraversare un’ampia frattura di produzione che supera il contatto petrolio-acqua. La frattura è stata aperta tramite fratturazione acida visto le tecniche usate? Perché gli studi dicono che nell’acidificazione delle fratture gli acidi sono usati per dissolvere porzioni di roccia nella formazione aprendo spazi esistenti che facciano strada al flusso di greggio. Scrivono che molti tentativi per ripulire Agri 1 or B da detriti di perforazione e corrosione delle tubazioni erano falliti, ma alla fine grazie a quelle condotte con cui erano state sparate misture acide riuscirono a recuperare parecchi detriti e scarti. Il pozzo proseguono, era stato chiuso un paio di giorni prima di continuare le operazioni di “lifting” all’azoto (usato anche per ridurre le concentrazioni di idrogeno solforato, ndr). Lifting che l’Oil Glossary spiega come iniezioni di azoto tramite condotte nella colonna d’olio (il giacimento, ndr) per far partire il flusso di greggio. Diversa la tecnologia impiegata in fase perforativa, come il “LatchRite” che impiegava tubazioni rivestite d’alluminio, tecnologia dice Halliburton, che come detriti nel pozzo produce solo pezzi d’alluminio. A un certo punto si danneggiarono anche gli strumenti di taglio e si persero pezzi di carburo di tungsteno, materiale di solito unito a: cobalto, nichel, cromo e tantalio per ottenere un metallo duro adatto a tagliare la roccia (foto2). Sostanze trovate in vari contesti petrolizzati da coloro che hanno fatto analisi private. Per ripulire il pozzo durante le operazioni vennero programmati quantitativi di Barolift, la cui scheda prodotto Halliburton ci dice che è polipropilene, con la precauzione ambientale di non scaricarlo in fogne e corsi d’acqua, e i cui effetti tossicologici sono pressoché sconosciuti tranne per quelli teratogeni o embriotossici di cui si riporta lo stato di “non confermati”.

Avviare fratture. Certo nel 2005 Halliburton aveva presentato Carbonate 20/20, un nuovo processo di acidificazione in giacimenti carbonatici. Tra le storie di successo del suo utilizzo c’è la Val D’Agri. Con Carbonate 20/20 i processi di acidificazione avevano luogo con fluidi appropriati pompati nella formazione carbonatica, in modo da lasciare la formazione conduttiva più distante dal fondo del pozzo. Carbonate 20/20, scrisse Halliburton, si focalizza sulle proprietà della roccia perché esse dettano “cosa dovremmo fare, quanto lo dovremmo fare, e come”. Halliburton dice di avere a che fare con la stimolazione acida dei pozzi e il fracking da trentanni. Lunghi decenni che hanno permesso di apprendere molte lezioni e concepire “best pratices”. Le buone pratiche, apprese in Val D’agri, oltre che registrazioni in campo e test di laboratorio prevedono acidificazione di matrici rocciose e fratture. La strutturazione del lavoro di acidificazione, scrivono, è supportata da strumenti ingegneristici come test specializzati di laboratorio, registrazioni con software per programmare l’acidificazione della matrice carbonatica come AcidXpert o C-MAP, o FRACPRO per il trattamento di acidificazione delle fratture. O Minifracs, chiamato da Halliburton – “Diagnostic Fracture Injection Test” e da Schlumberger –  “Mini Fall-off”. Altri operatori lo chiamano generalmente Data Frac o Mini Frac, definito piccolo ammontare di acqua al cloruro di potassio (meno di 100 barili, ndr) pompato fino a quando non s’avvia la frattura. Il sistema di fluidi messi in campo da Halliburton prevede la Zonal Coverage Acid (ZCA, ndr) o distribuzione acida ottimale a lunghi intervalli (un pompaggio forzato di acido direttamente nella formazione, ndr), la Carbonate Completion Acid, una miscela acida economicamente vantaggiosa, la Fines Recovery Acid, un sistema di schiuma acida per un facile “flowback”, il processo che permette ai fluidi (greggio, ecc., ndr) di scorrere dal pozzo dopo un trattamento e una migliore rimozione delle ostruzioni. E ancora la Carbonate Stimulation Acid, un sistema acido viscoso per migliorare il controllo della perdita di fluidi e della penetrazione profonda, la Hot Rock Acid, sistema acido a bassa corrosione per aumentare le proprietà di controllo della perdita di fluidi, e la Carbonate Emulsion Acid, un sistema di emulsione acida con caratteristiche perforative superiori. Ce n’è per tutti insomma.

Disegnare “foglie” sottoterra. L’HCl, scrive Halliburton, è il primo acido usato per trattare formazioni carbonatiche. Nell’acidificazione delle fratture il nuovo servizio Halliburton è capace di realizzare un tipo di fratturazione con una “struttura a foglia”, con incisi sufficienti spazi vuoti capaci di indirizzare il greggio verso il fondo pozzo. E può farlo senza aggiungere ai fluidi di fratturazione materiali capaci di mantenere aperta la frattura dopo l’arresto del pompaggio. Materiali come bauxite, o resine fenoliche di cui gli stessi petrolieri ammettono il possibile pericolo di percolazione di formaldeide cancerogena e fenoli mutageni negli acquiferi. “Nell’area della Val D’Agri – scrive Halliburon – la sfida Agip è stata di rimuovere i danneggiamenti della roccia attorno al buco causati dalle operazioni di perforazione e migliorare la permeabilità della formazione carbonatica. Ciò ha richiesto la stimolazione di tre zone con fratture naturali e diverse permeabilità nella sezione aperta di 500 metri del pozzo”. Nei pozzi in Val D’Agri fu applicata la ZCA, il primo trattamento di questo tipo in Italia in cui l’acido copre un’ampia zona lungo il pozzo dicono. Sul petrolio la Basilicata è sempre prima a testare. Cinque anni dopo, nel 2011, Halliburton portava ancora ai convegni l’esempio dei pozzi orizzontali in Val D’Agri e del problema del “flusso d’acqua attraverso le fratture connesse a un acquifero” (foto3). Rispetto al volume totale di liquidi prodotti, ossia tutto quello che viene su assieme al greggio, il 65% è l’acqua dell’acquifero attivo che spinge il petrolio in superficie? Quanti pozzi lavorano in questo modo in Val D’Agri? Quali interazioni hanno gli acquiferi con le pressioni? Certo all’estero raccontano i water breakthrough, ma ai Comuni, alla Provincia, alla Regione e agli enti di controllo sono stati comunicati? Basta poi cementare un pozzo e spostarsi più in là tra zone instabili per risolvere il problema? E quando si ritrova un fluido fangoso che esce da una falda stracarico di ferro (da cui il prevalente colore rosso, ndr), con: alluminio, arsenico, piombo ,manganese ,cobalto, cromo, nichel, molibdeno, bario, boro, rame, vanadio, zinco, fenoli, come dovremmo interpretare il fenomeno visti i vecchi e nuovi problemi di smaltimento illecito di rifiuti petroliferi?

Effetti potenziali difficili da rilevare? Certo le corporation del petrolio sanno bene che sotto il loro progetto di sviluppo con pozzi condotte e reiniezione (foto4), vi sono bacini idrici di profondità (foto5). Ed Eni e Shell conoscono inoltre bene i danni che produce l’industria petrolifera. In “Innovative Environmental Solution: ‘In vivo’ Monitoring of the Oil and Gas Activities in Onshore and Offshore Areas” del 2010, dove l’esempio di giacimento onshore è la Val D’Agri ovviamente, scrivono che devono operare per “minimizzare i potenziali effetti tossici delle miscele di contaminanti nell’ecosistema, inclusi gli impatti sulla biodiversità” e che “in molti casi, per esempio dopo fuoriuscite di petrolio, il danno ecologico è ovvio. In altre situazioni, come nel caso di attività di estrazione di petrolio e gas, i potenziali effetti tossicologici causati da esposizione prolungata a bassi livelli di contaminanti come i composti genotossici e i distruttori endocrini, sono molto difficili da rilevare”. In quello che chiamano Monte Alpi Oil Center scrivono che ci sono impatti minimi, da 20 a 200 metri di distanza, e presumibilmente dovuti a ricaduta di idrocarburi policiclici aromatici. Appena l’anno scorso Alberto Diantini e altri, dell’Università di Padova, si occuparono della concessione Val D’Agri in “Overlapping on onshore oil activities and biodiversity in Italy”, descrivendo le problematiche incontrate attraverso l’analisi del contesto delle attività petrolifere. Una riguarda il bacino idrico del fiume Agri, sbarrato a valle delle attività petrolifere per creare il Lago del Pertusillo, un lago molto importante scrivono, perché principale sorgente di acqua potabile per le regioni Basilicata e Puglia. “La possibile contaminazione da idrocarburi dell’acqua del lago – proseguono – avrebbe importanti effetti sull’ambiente e la salute umana”.

Eni e Comuni: tra violazioni e disinteresse. Complessivamente, riportano Diantini e altri, per verificare la “concreta applicabilità” delle linee guida IMOG (Impact Mitigations Oil Guidelines, ndr), una banca dati basata sull’analisi bibliografica della letteratura tecnica, scientifica, delle linee guida internazionali del settore industriale del petrolio e del gas, in cui “sono specificati gli impatti dell’estrazione del petrolio sulle differenti componenti dell’ambiente e le misure per la loro riduzione”, visitarono 16 dei 40 pozzi della concessione Val D’Agri (produttivi, chiusi, di reiniezione, in fase di perforazione, ndr). Ma le Valutazioni d’Impatto Ambientale (VIA, ndr) analizzate secondo l’IMOG furono solo due, le uniche due che si riuscirono a consultare specificano, il Progetto di Sviluppo Caldarosa e Area cluster S. Elia 1-Cerro falcone 7. Molti Comuni interpellati per fornire dati ambientali negarono infatti l’accesso ai dati, “violando” di fatto la Convenzione di Aarhus. Inoltre non fu possibile accedere alle aree pozzo perché Eni, dopo molte richieste, rispose di “non essere interessata alla ricerca”. Riuscirono a stare solo oltre le recinzioni delle aree pozzo. Analizzando le VIA notarono che non c’erano dettagli sufficienti a descrivere acque superficiali e falde acquifere che potevano subire l’impatto delle attività petrolifere, e non c’era la definizione del rischio per ogni possibile contaminazione dei corpi d’acqua in rapporto a biodiversità e scopi irrigui e di potabilità. Di particolare importanza, ribadirono anche, è la “descrizione inadeguata” degli aspetti legati al rischio sismico e alla resistenza delle strutture poste in essere a eventi sismici, nonostante l’elevato rischio sismico dell’area.